Fu Gianni Sofri a “mandarci” da Chiara Frugoni. E ci fece un gran regalo. Era uscito il libro Francesco e l’invenzione delle stimmate, e toccò a me andare. Lo lessi, ma non sapendo quasi nulla dell’argomento, feci un po’ fatica a capire l’interpretazione delle immagini, così mi presentai all’intervista in ansia. Rimasi incantato dal racconto e dalle spiegazioni di Chiara e per tutta l’intervista non dissi una parola. Ne riporto l’inizio: Francesco torna dall’Egitto nel 1220, perché l’Ordine si sta spaccando, e dà le dimissioni. Da quel momento per lui comincia una vita solo di disperazione, di tribolazione somma perché nel successo dell’Ordine vede la propria rovina, il fallimento del suo progetto. Un progetto che, d’altra parte, era stato pensato per pochi compagni. Non lasciare cibo per il domani, non avere case di mattoni, come prescriveva Francesco, è possibile se si è in sette o otto, non lo è più se si è in trentamila. E tanti erano già i francescani vivente Francesco. Francesco aveva detto che bisognava lavorare perché chiedere l’elemosina è portar via i soldi ai poveri, e si ritrova con un ordine mendicante, esattamente il contrario... Ma è inevitabile che una proposta che esige un grande entusiasmo e una grande adesione interiore, che in pochi hanno, si appiattisca se applicata su larghissima scala. Infatti è sempre accaduto che piccole comunità, piccoli gruppi, una volta avuto successo, si siano incanalati in forme di vita più tradizionali rispetto alle idee innovative originarie. [...] Ma, al fondo, è la sua stessa proposta più importante -quella di far la scelta di campo, di diventare povero fra i poveri, la proposta semplicissima di applicare il Vangelo- ad essere inaccettabile per una struttura come quella della Chiesa che, come fa ancora oggi, i poveri tende ad aiutarli, ad assisterli. Credo che questo sia il problema per il cristianesimo: dover mettere in pratica il Vangelo e contemporaneamente, per diffondere il Vangelo, aver la necessità di una struttura che inevitabilmente vuol dire potere e quindi ricchezza. Insomma, il fallimento di Francesco veniva da molto lontano. Francesco lo visse con grandissima angoscia e sperò di superarlo attraverso l’esempio, rimanendo comunque il capo carismatico e l’esempio vivente della Regola. Nel suo testamento che fu un atto di energia disperata, dirà che i frati “tornino a lavorare e a stare coi lebbrosi”, che “bisogna tornare alle origini”, che “i frati devono essere tenuti a prendere questo testamento senza commentarlo”, e dice proprio “senza dire: qui Francesco voleva dire”. Ma venne cassato immediatamente.
Il fallimento nel successo, la geniale idea del “numero due” di trasformare delle piaghe in stimmate, la divinizzazione per tradire… Me ne venni via del tutto conquistato.
Quando le arrivò il numero mi telefonò entusiasta, per ringraziarmi dell’intervista, che -disse- “Aveva già mandato all’editore per metterla in bibliografia”… E io: “Ma signora, non ricorda che ho fatto scena muta? Le domande le ho inventate dopo...”, “Ma cosa dice mai, grazie grazie”.
A quella intervista ne seguirono altre, lei apprezzava la rivista, sottoscriveva l’abbonamento sostenitore, ci dava consigli. Durante un’intervista che ero andato a fare d’inverno notai che la casa era molto fredda. Poi, durante l’intervista che durò circa un’ora e mezza, fummo interrotti per tre volte dal campanello e tutte le volte sentii Chiara confabulare con qualcuno. Quando tornò mi spiegò che erano extracomunitari che cercava di aiutare in qualche modo. All’intervista successiva, quando si ripeté la stessa processione, e ormai ero più in confidenza, le chiesi di quale entità fosse quell’aiuto. Mi disse che al mese le andava via quasi l’equivalente di uno stipendio modesto. “Sì, i pochi diritti che ricevo”. Lì pensai che la padrona di quella casa fredda vivesse da francescana. Del resto il suo amore per Francesco e per santa Chiara era evidente.
Sono tante le interviste fatte. In queste pagine riportiamo l’elenco. Ricordo bene quella sull’agricoltura di montagna, dove, volendo anche sfatare un’idea idilliaca della vita “di una volta”, ci raccontò della durezza della vita di quei contadini che al primo dolore si liberavano di tutti i denti, che erano un di più, dato che si mangiava polenta tutta la vita. E sempre riusciva a spiegare “freddamente” e insieme a far commuovere.
Un giorno le chiesi se mi fosse sfuggita la recensione del suo libro su un’importante rivista torinese, perché non l’avevo vista. Mi disse che per quella rivista lei non esisteva e che le conventicole accademiche erano tremende. Lei era considerata una specie di “imbucata”. Me ne ricordai quando ci vedemmo dopo che aveva scoperto il volto nella nuvola di Giotto. In tanti secoli nessuno se n’era accorto. Mi disse che la notizia aveva fatto scalpore in tutto il mondo, quello degli addetti e quello francescano. Non lo dava a vedere ma di quella scoperta era sicuramente contenta. Si sarà chiesta se sarebbe stato soddisfatto suo padre di cui racconta in un’altra intervista di quando, in motoretta, la portava da piccola a vedere le immagini delle edicole sulle strade di montagna. La capacità di leggere le immagini forse era nata lì. Nell’intervista su suo padre, il grande Arsenio Frugoni, alla domanda su come avrebbe commentato il suo libro su Francesco, lei rispose: “Avrebbe detto che era una lungagnata, ma -aggiunse- credo che in cuor suo ne sarebbe stato orgoglioso”.
Sì, ogni volta che si veniva via da quella casa si aveva la sensazione di essere “migliorati”, nella mente e nel cuore.
gs