La domanda, in apparenza innocua, è la seguente: “Ma come, tu polacco soffri per il freddo?”. La risposta (mia) può variare dal semplice “ebbene, sì” al più articolato (si fa per dire) “a me piace il caldo, il deserto; la neve mi mette tristezza: non fosse per le ragioni politiche, avrei lasciato la Polonia per quelle meteorologiche”. Una variazione, radicalizzata, della domanda sulla neve è invece questa, in genere al ristorante: “Ma guarda (in tono ammirato o stupito) mangi i gamberetti!”. La risposta, anche in questo caso, può variare dal secco “sì” al più articolato “perché me lo chiedi e di cosa ti stupisci?”. La prima risposta è una constatazione (mangio quello che voglio). La seconda mira a costringere l’interlocutore a spiegarsi, ossia ad aggiungere qualcosa come “perché agli ebrei è proibito mangiare i crostacei”. In ambedue i casi, non ipotetici e che mi capitano con una certa frequenza, si denota da parte dell’interlocutore o interlocutrice, in genere di sinistra e comunque (in apparenza) lontana dalle idee delle destre, la convinzione che l’identità non sia l’insieme delle esperienze che la persona ha fatto, bensì un dato oggettivo che deriva dalla nascita. E anche che l’umanità non sarebbe fatta di individui che sono poi sorelle e fratelli (rivoluzione francese docet) ma di comunità separate, al cui interno si collocano le singole persone.
Ebbene, sì, sono un polacco a cui non piace il freddo e un ebreo che non rispetta i precetti. E poche cose mi rendono più triste e arrabbiato quanto l’insistenza con cui, talvolta, mi si vuole collocare nello stereotipo del polacco e dell’ebreo. Aggiungo: non seguo i precetti, non perché mi sono ribellato alle regole della religione, ma perché contro quelle regole si sono ribellati, rispettivamente, i miei nonno e nonna materni e mio padre. Non sto raccontando i fatti miei, sto cercando di dire che le appartenenze e le identità sono più numerose di quanto gli ossessionati (inconsapevoli e anche quelli consapevoli) delle identità siano in grado di immaginare.
Quanto sopra mi è venuto in mente nei giorni in cui molti media italiani hanno dato un certo risalto a una notizia che non era del tutto vera. Ecco, si diceva che la Commissione europea avrebbe messo in questione il Natale. Ora, si trattava di un documento interno, non molto creativo né particolarmente intelligente, in cui si raccomandava di non usare certe espressioni riconducibili alla cultura cristiana, dato che non tutti nel mondo sono cristiani. È una prassi consolidata da anni negli States, specie a New York, dove a dicembre si augura “Buone Feste” e non Buon Natale, e dove per “feste” si intende sia il Natale che la Hanukkah (idem per Pasqua e Pesach). Ma, al di là del sollievo, quando sempre la Commissione ha fatto sapere di voler rivedere quel documento, resta (per me) un fatto: abbiamo sempre più difficoltà a pensare e parlare da laici.
Mi spiego: a sinistra (la destra mi interessa poco in questo contesto) abbiamo ormai l’abitudine di considerare sconveniente l’imposizione dell’immaginario della maggioranza sulle minoranze. E così, appunto, pensiamo che la maggioranza non dovrebbe ostentare i suoi simboli identitari, caso mai usarli con discrezione, senza ferire gli altri. Un proposito nobile, che però spesso non lascia, a chi appartiene a una delle minoranze, la libertà di scelta o non tiene conto del fatto che, pure all’interno delle minoranze, le identità sono molteplici e non lineari, così come i desideri.
Fuori dalla teoria: a me fa piacere sentire l’augurio: “Buon Natale”, per quanto capisca che a un altro ebreo la cosa potrebbe non far piacere. Di più, penso che in un paese, come l’Italia, la cui cultura e storia sono forgiate dall’immaginario cristiano, nel dire “Buon Natale” raramente si nasconda un proposito discriminatorio nei confronti di chi il Natale non lo festeggia. Esagero: ci sarà pure un ragazzo o ragazza, ebreo o musulmano, che desidera diventare cristiano, e lo desidera particolarmente durante il Natale?
C’è poi quell’altro aspetto del fascino dell’identitarismo, un aspetto poco discusso, per cui la donna musulmana è quella che porta il velo; l’ebreo è quello che non mangia i crostacei né il prosciutto e via elencando, ognuno nella sua casella. È un pensiero che, portato al suo estremo, finirebbe per abolire il concetto di cittadinanza, la libertà di scelta, la facoltà di non essere coerente e così via. Tempo fa, per esprimere la propria solidarietà verso gli ...[continua]

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