Critico scrittore, cioè narratore e critico di quella vita che la società ci spinge o costringe a vivere, sempre in regime di libertà limitata e condizionata, Piergiorgio Bellocchio ci ha lasciato una serie di libri che per forma e contenuto, per qualità stilistica e passione morale ne fanno uno dei nostri autori più lucidi e originali di fine Novecento. Non ha scritto romanzi, benché avrebbe potuto scrivere il migliore romanzo sociale italiano che negli ultimi decenni ci è mancato. Simile in questo a scrittori che hanno dato il meglio di sé in una saggistica autobiografica, anche Bellocchio non ha scritto romanzi perché moltissimi ne aveva letti e sapeva bene che cos’è un romanzo, che cosa è già avvenuto nella tradizione di questo fondamentale genere letterario moderno. Grande lettore, il suo genere letterario più naturale era quello diaristico. Tutto ciò che Bellocchio ha scritto può essere letto come un diario ininterrotto che prende di volta in volta la forma della recensione letteraria, della nota a margine di un qualunque testo o fatto di cronaca, di intervento giornalistico, di racconto critico, di saggio o aforisma satirico. Fondatore di due riviste tra loro diversissime come “Quaderni piacentini” (1962-1983) e “Diario” (1985-1993), per Bellocchio scrivere era appunto riempire quaderni e tenere un diario. Mentre nella seconda metà del Novecento il genere romanzo scivolava velocemente verso una inesorabile decadenza, che ne ha impoverito fino all’esaurimento materia narrabile e capacità narrativa, nei suoi quaderni e diari Bellocchio sembrava tornare alle origini del romanzo, ai suoi materiali da costruzione, fatti di appunti, promemoria, frammenti narrativi, aneddoti e osservazioni dal vivo e dal vero, citazioni e documenti. Mentre nei “Quaderni piacentini” fu con il passare degli anni sempre più un direttore-coordinatore che scrive poco e si relega ai margini, lasciando spazio a un ampio, benché selezionato, gruppo di collaboratori, nella sua successiva rivista “Diario” lo scrittore Bellocchio viene in primo piano. I temi sociali e politici non sono più oggetto di studio specializzato, ma di osservazione personale e di scrittura letteraria.
Per rintracciare una continuità fra le due riviste bisogna risalire ai primissimi numeri di “Quaderni piacentini”, per esempio a uno scritto come quello dedicato nel 1962 al suicidio di Marilyn Monroe:

Marilyn era una diva piuttosto che un’attrice. Qualcosa di meno, di più...; qualcosa di essenzialmente diverso. Nessun’arte o spettacolo più del cinema (...) comprime la personalità dei propri autori, dai registi agli attori (...). Diceva Fitzgerald, l’idolo letterario degli anni Venti, morto solo e in miseria, distrutto dall’alcol, che nei suoi racconti “c’era una piccola goccia di qualcosa -non di sangue, non di pianto, non del mio seme, ma di più intimamente mio-, era l’extra che avevo”. Ciò che rendeva unici e indimenticabili molti momenti di Marilyn era che, oltre i personaggi di maniera cui era costretta e che intrepretava male (una riprova della sua autenticità), ci trasmetteva qualcosa di intimo, “sangue”, “pianto”, “seme”... Era come toccare qualcosa di vivo, di nudo.
(“Quaderni piacentini”, ottobre 1962, in L’astuzia delle passioni, Rizzoli, 1995, pp. 3-5)

Quello che colpisce in queste righe è quel tanto di vitale fisicità, di indefinibile ma sensibile dato di singolarità che a volte neppure i meccanismi sociali più potentemente coercitivi riescono a cancellare in un individuo: un quid irriducibile che può manifestarsi, rivelarsi in certi momenti in cui il controllo che esercita il mondo produttivo del cinema e l’autocontrollo professionale della recitazione si lasciano sfuggire. Quando questo avviene è “come toccare qualcosa di vivo, di nudo”.
La passione per il romanzo si prolunga in Bellocchio nella sua passione per il cinema e le sue narrazioni. Nel migliore dei suoi scritti sul cinema, quello dedicato a Barry Lyndon di Kubrick, forse il capolavoro del regista, tratto dall’omonimo romanzo di Thackeray, il film viene usato da Bellocchio per approfondire ciò che più gli interessa, cioè l’analisi del rapporto fra individuo e società, vita e struttura di classe, carattere, denaro e destino:

Protagoniste del film di Kubrick sono le leggi economiche, la struttura sociale, le barriere di classe. Il giovane Redmond Barry ama una cugina, che lo ricambierebbe se le risorse di lui non si limitassero alla gioventù e a un ottimo aspetto. Barry non ha un penny e la famiglia di lei è piena di debiti. S’impone quindi la cessione della ragazza (col pieno consenso di lei) a un capitano dell’esercito, stagionato e vigliacco ma ben provvisto a denari. Per affermare il suo diritto sulla ragazza, Barry sfida il capitano, crede di colpirlo a morte e deve fuggire per evitare l’arresto. (...) Viene quasi subito derubato di armi, cavallo e dei pochi denari (...), e non gli resta che arruolarsi. (...) Ben presto scopre che la condizione del soldato equivale a quella di uno schiavo e la realtà della guerra è la morte. (...) Liberatosi da questa servitù, si mette in società con un giocatore di professione. Ma anche questo è un lavoro da schiavo: non basta barare senza farsi scoprire; per ottenere il pagamento delle somme vinte bisogna spesso battersi in duello. Il successo sembra infine raggiunto (l’affrancamento dalla necessità) quando Barry sposa Lady Lyndon, una ricchissima vedova dalla quale ha anche un figlio. Ma erede del titolo e del patrimonio è il figlio di primo letto, Lord Bullington, che odia e disprezza (anche per ragioni di classe) il patrigno Barry. (...) Per vivere all’altezza del suo rango e nel vano tentativo di procurarsi un titolo nobiliare e assicurare a sé e al figlio l’indipendenza economica, Barry dà fondo al patrimonio della moglie. Alla rovina economica si accompagna il bando sociale; gli muore il figlio ancora bambino in un incidente di cui è in parte responsabile; per il dolore si abbrutisce nell’alcol; Bullington, erede Lyndon, sfida e mutila in duello Barry e lo sbatte fuori di casa, assegnandogli una pensione a patto che non si faccia più vedere.

Ho citato così ampiamente questo riassunto sia perché Kubrick e questo suo film sono ai primi posti nelle preferenze di Bellocchio; sia perché nei suoi scritti critici la riesposizione interpretativa delle trame ha un ruolo primario nell’illustrare il tema per lui centrale: che cosa di fatto accade nella concatenazione implacabile di cause e di effetti in cui si realizza il destino sociale dei personaggi. La vita è sempre un prodotto delle necessità sociali e delle circostanze ambientali che rovesciano libertà apparenti e qualità caratteriali in un destino determinato soprattutto dal denaro, dal potere, dalla collocazione di classe. L’eccellente estetica del film e il giudizio che Bellocchio ne dà restano quasi in secondo piano: sono il presupposto necessario alla scelta di analizzarlo in un saggio così ampio e accurato da risultare uno dei migliori che Bellocchio abbia scritto. Di osservazioni stilistiche ce ne sono molte, a confermare l’unicità del genio di Kubrick nella declinante arte cinematografica di fine Novecento. Ma arte e stile servono anzitutto a illuminare verità sociali e storiche. Centrale è comunque un’osservazione: ciò di cui infine è vittima Redmond Barry è l’efficienza del sistema di potere elaborato già nel Settecento dalla classe dirigente inglese, “all’avanguardia nell’edificazione del capitalismo e che nell’Ottocento raggiungerà l’egemonia mondiale”. Un tale sistema di potere era di per sé così forte da non avere neppure bisogno di individui di valore: “Un gentiluomo con molte migliaia di sterline di rendita poteva anche essere un perfetto idiota, comportarsi da cafone, scialacquare e gozzovigliare, dato che egli era già comunque classe dominante: chi invece aspirava a diventarlo non poteva permetterselo”.
Qui la lucidità pessimistica di Bellocchio coincide con quella di Kubrick, ed è in entrambi alla base del loro stile satirico. Per descrivere nel modo più efficace la realtà del potere non c’è metodo più sicuro di quello che mostra quanta poca virtù ci voglia per comandare e vincere quando si è collocati socialmente in alto. Un sistema sociale di potere mostra di assolvere bene la sua funzione quando il suo funzionamento raggiunge un tale automatismo da potersi servire utilmente anche di perfetti imbecilli, purché ubbidienti alle regole imposte e giudiziosamente a loro agio nell’esercizio del ruolo previsto. A volte, anzi spesso, l’inefficienza e l’incapacità di esercitare sulla propria vita un sufficiente autocontrollo è un segno di naturale riluttanza, se non di istintivo rifiuto di adeguarsi all’ordine sociale stabilito. Anche nella tendenza al fallimento e all’isolamento, o nella diffidenza per il successo, si può esprimere un’inconsapevole protesta contro l’idea della vita che il sistema sociale impone e diffonde.
Il saggio su Kubrick, uscito nel 1977 su “Quaderni piacentini”, venne incluso nel volume L’astuzia delle passioni pubblicato nel 1995, che si concludeva con “Down and Out” dedicato a Orwell; ma è ricomparso come testo conclusivo anche nel recente Un seme di umanità pubblicato nel 2020, che contiene anche, di nuovo, il saggio su Orwell. Questi ritorni e queste collocazioni privilegiate in due diversi libri segnalano la centralità che per Bellocchio hanno i due autori. Un film come Barry Lyndon non piacque alla sinistra degli anni Settanta, che lo trovava poco “rivoluzionario”. Anche da un punto di vista formale. Orwell poi ha avuto con la sinistra di ogni tipo un rapporto ancora più difficile, sia nel corso della sua vita che in seguito. Il fatto che siano famosi e citati soprattutto un’allegoria politica come La fattoria degli animali e 1984, l’utopia negativa più celebre del Ventesimo secolo, non significa affatto che Orwell sia stato capito e accettato dalla cultura di sinistra a cui si rivolgeva. I suoi libri migliori, le autobiografie saggistiche Omaggio alla Catalogna, Senza un soldo a Parigi e a Londra, La strada di Wigan Pier e gli scritti raccolti con il titolo Nel ventre della balena, sono trascurati o ignorati:

C’è da noi un diffuso pregiudizio contro i libri che non appartengono a un genere definito. Il lettore e il critico esigono il romanzo e, nella saggistica, il libro a tema e di sicura appartenenza a una precisa disciplina (storia, filosofia, economia, critica letteraria, ecc.). La mescolanza dei generi, gli ibridi, le zone di confine sono altamente sospette. Le raccolte, poi, siano racconti o saggi, articoli o documenti, sono evitate a priori come merce scadente, di seconda mano, avanzi, scampoli, minestre riscaldate...
(in Un seme di umanità, Quodlibet, 2020, p. 153)

Bellocchio sottolinea qui che il vero Orwell è andato e continua ad andare di traverso sia ai letterati e ai professori che ai politici di destra e di sinistra: un socialista critico delle organizzazioni socialiste e comuniste, uno scrittore che usa l’autobiografia per riflettere e la saggistica per ricavare idee dalle proprie esperienze personali.
Bellocchio parte dal più abusato metodo con cui si è giudicato Orwell in quanto autore della Fattoria degli animali (una parabola dello stalinismo) e 1984 (un futuro mondiale apocalittico dominato da totalitarismi in lotta fra loro). Per liberarsi di Orwell, per neutralizzare e liquidare le sue esperienze e le sue opere, si sono usati diversi argomenti, ma sempre gli stessi: a) ritrarlo come un individuo onesto ma caratterialmente deformato da traumi giovanili, da un pessimismo congenito e da una solitudine dovuta allo sradicamento sociale; b) misurare se le sue previsioni politiche si sono o no realizzate alla perfezione; c) confrontarlo come scrittore con narratori del livello di Joyce, Forster, Lawrence e Virginia Woolf, tutti letterariamente superiori e, loro sì, davvero geniali.
E così, il gioco è fatto. Orwell non era altro che un giornalista e un romanziere di scarso valore. Inoltre, dice Bellocchio, “la critica marxista ha fatto largo ricorso ai soliti luoghi comuni dello sradicamento, dell’assenza di legami con la comunità, con le masse, dell’individualismo piccoloborghese, eccetera”, trascurando così “il dato fondamentale che nel nostro tempo l’esilio, l’abbandono, la solitudine rappresentano la condizione normale della stragrande maggioranza degli uomini, delle masse (...) hai un ben volerti legare alla comunità, quando la comunità non esiste più”.
Dovrebbe essere noto che da tempo la sociologia ha constatato che fuori del posto di lavoro le “masse” diventano sempre più “folla” e, come è stato detto in un famoso libro di David Riesman, “folla solitaria”. La società novecentesca nasce dalla dissoluzione dei legami “comunitari” e la caratteristica fondamentale della vita nei grandi agglomerati urbani è la solitudine individuale annegata nella anonimia della folla.
Quanto alla realizzazione o meno delle sue buie profezie politiche, Orwell stesso precisò: “Io non credo che il genere di società da me descritta si realizzerà necessariamente (...) ma credo che qualcosa di molto simile potrebbe realizzarsi”. Durante la guerra civile di Spagna aveva sperimentato di persona la prassi delle formazioni combattenti comuniste legate a Mosca nei confronti degli antifranchisti non stalinisti, e a partire dai loro metodi Orwell immaginò che tipo di società e di stato (menzogne, diffamazioni, persecuzioni) prevedevano e programmavano.
Cito il saggio di Bellocchio su Orwell perché è il più eloquente nel rivelare, molto più che i limiti di Orwell, i limiti e le miserie della sinistra politica in tutte le sue varianti, da quella bolscevico-trotzkista a quella socialista. A Bellocchio bastano poche righe della Strada di Wigan Pier per definire la percettività sociale di Orwell:

Sul retro di una di quelle case, una giovane donna, ginocchioni sulle pietre, frugava con un bastone nella tubatura di piombo che proveniva dall’acquaio interno e che suppongo fosse ingorgata. Ebbi tempo di vedere ogni cosa di quella donna, il grembiule di tela di sacco, i suoi goffi zoccoli, le braccia arrossate dal freddo. Alzò lo sguardo al passaggio del treno e io fui quasi sul punto di incontrare quello sguardo. Aveva il volto pallido e tondo, la solita faccia esausta della ragazza di slum, che ha venticinque anni e ne dimostra quaranta, a causa degli aborti e delle fatiche; ed aveva quella faccia, la più desolata, disperata espressione che io abbia mai visto. (...) Era ben consapevole di quanto le stava accadendo, capiva chiaramente come me che terribile sorte sia doversene stare sulle ginocchia nel freddo intenso sulle pietre scivolose nel retro di una baracca, a frugare con un bastone in un tubo di scarico intasato di sporcizia.

Prima e più che le idee e le posizioni politiche, Bellocchio mostra nel suo saggio su Orwell che contano i sentimenti politici e la sensibilità sociale dello scrittore:

Non ci può essere vero impegno politico né vera arte che non passino attraverso questa specie e questo grado di coscienza e responsabilità. (...) Può darsi che quella donna non fosse così disperata e consapevole come Orwell l’ha vista, ma ha ragione Orwell di volerla così disperata e consapevole.
(in Un seme di umanità, Quodlibet 2020, pp. 151-152)