Carmelo Cantone è attualmente provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise e incaricato ad interim quale provveditore della Campania. In passato ha diretto gli istituti di Padova e Brescia e poi il carcere Rebibbia Nuovo Complesso.

Cominciamo dalla parola rieducazione, che a qualcuno piace, ad altri no. Per quanto, in questa funzione, il carcere si sia dimostrato inadeguato o addirittura dannoso, continua a essere considerato non una extrema ratio, ma la soluzione.
Credo sia necessaria una premessa. All’interno del carcere non ci sono soltanto detenuti condannati, che stanno scontando una pena definitiva e per i quali si deve perseguire l’obiettivo della rieducazione o risocializzazione o reinserimento che dir si voglia; ci sono anche i detenuti in attesa di giudizio. Troppo spesso, come sappiamo, queste due categorie di detenuti convivono, ma sono persone che hanno esigenze ben diverse. Chi è imputato pensa al proprio processo, alle disgrazie che ha in corso, a come uscirne (o magari al prossimo reato che vuole commettere...). Dall’altro lato il condannato dovrebbe pensare a come guardare al di là della punta del proprio naso, a come impostare un futuro di recupero grazie anche alle sollecitazioni che riceve da un ambiente professionale che è appunto quello degli operatori. È un dato di fatto che questo sistema continua a non tenersi in piedi. Noi registriamo ancora una volta il fallimento del sistema carcere, ma non abbiamo un’alternativa al contenitore carcere. Anni fa c’erano i collettivi che parlavano di liberarsi dalla necessità del carcere. Erano gli anni Ottanta. Questo movimento, che si ricollegava a quello dell’antipsichiatria, dell’abolizione del manicomio civile, non ebbe la stessa fortuna; la scommessa è rimasta lì. Non ci si riesce a liberare della necessità del carcere, almeno non oggi. E allora? Allora direi due, tre cose. Una, il carcere, oggi più che mai, deve essere destinato a persone che hanno uno spessore criminale significativo. Per affrontare i casi di disagio sociale significativi e sparsi a macchia di leopardo nel nostro paese, ma che non appartengono al crimine organizzato, bisogna trovare altre strade, altri “contenitori”.
Non possiamo pensare di risolvere il problema delle plurime recidive continuando a seguire questo percorso di sliding doors, per cui nel tempo la persona rientra in carcere anche per scontare brevi periodi di pena. Ci vorrebbe un’analisi molto più accurata per quanto riguarda coloro che non hanno fatto un percorso senza soluzione di continuità in carcere, ma arrivano direttamente dalla libertà e devono scontare una pena definitiva o un residuo di pena definitiva; il ventaglio delle misure possibili che non siano carcere deve essere allargato, per esempio inglobando anche quei reati che appartengono alla fascia del 4-bis dell’Ordinamento penitenziario, cioè i reati che non sono quelli gravissimi di mafia e criminalità organizzata, ma stanno a metà strada fra questi e i reati -chiamiamoli così- di basso conio.
Una truffa, un furto sono reati di basso conio; la rapina, l’estorsione, l’usura, lo spaccio in concorso con almeno tre persone invece sono reati di medio conio, molto frequenti. Su queste categorie, la fascia di basso e quella di medio conio -mi consenta questi termini- che ricomprendono una umanità veramente molto intensa, si deve e si può fare molto per evitare l’ingresso in carcere. Comunque sto parlando del mondo dei condannati definitivi. Dobbiamo fare in modo che solo le persone che hanno un significativo spessore criminale, anche per i reati che hanno commesso, siano ospitate nei nostri istituti e qui siano oggetto di una batteria di interventi che dovrà essere di sostanza ben più forte rispetto a quanto finora si è riusciti a ottenere.
Poi c’è il mondo degli arrestati dalla libertà. Tutte le belle cose che ho detto prima vengono messe in crisi dal fatto che nel nostro paese c’è una tendenza a procedere all’arresto (che porta in carcere) di persone che hanno commesso reati di non grave impatto in termini di pericolosità sociale né, spesso, di danno alla collettività. Il furto di una bicicletta… Ricordo proprio dei casi specifici che mi sono capitati. Nel momento in cui arresto un ragazzo di vent’anni del Ghana -ci possiamo immaginare: totalmente decontestualizzato- che ha rubato una bicicletta, il ragazzo comincia a reagire e commette resistenza, se non addirittura violenza, nei confronti del pubblico u ...[continua]

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