Una città n. 282

una città n. 282 mensile di interviste marzo 2022 euro 8

una città 2 sommario Avete già pronto il vostro righello? È ora di sbarazzarsi delle idee della Guerra fredda di Sheri Berman (p. 3) Noi vi opporremo resistenza Una lettera da Kyiv alla sinistra occidentale di Taras Bilous (p. 5) Fra Putin e la democrazia liberale Sulla guerra in Ucraina e la sinistra intervista a Jeffrey C. Isaac (p. 7) La Rus’ di Kiev Sulla complicata storia dell’Ucraina e della Russia intervista a Francesco Cataluccio (p. 12) Una Polonia così bella... Sull’incredibile moto di solidarietà polacco intervista a Konstanty Gebert (p. 19) Mariupol, città martire servizio fotografico (p. 23) L’Ucraina e la Bosnia Un appello all’Europa Daniel Cohn-Bendit, Timothy Garton Ash, Pawel Karolewski, Claus Leggewie (p. 27) La nostra Ucraina di Michael Walzer (p. 28) Su guerra e pace di Adriano Sofri e Lea Melandri (p. 30) Holodomor Sullo sterminio per fame di milioni di ucraini da La grande carestia, di Anne Applebaum (p. 36) Saba, storia e politica Alfonso Berardinelli (p. 40) La gentilezza è invincibile Belona Greenwood (p. 41) Sono un serbo in Bosnia Zoran Herceg (p. 42) Dalla scalinata di Potemkin Wlodek Goldkorn (p. 43) Diario di un mese Gianni Saporetti (p. 44) Marca, terra di confine lettera di Andrea Caffi (p. 46) La visita è alla tomba di Anna Politkovskaja (p. 47) marzo 2022 Dedichiamo l’intero numero al popolo ucraino che sta resistendo eroicamente alla superpotenza fascista che ha invaso il suo paese. Lo dedichiamo alle vittime civili di una barbarie che non rispetta alcuna regola internazionale, alcun codice d’onore. Ci sentiamo impotenti e ci si chiede se e per quanto le nazioni democratiche potranno continuare ad assistere allo scempio senza intervenire. Per il resto nulla sarà più come prima e sarà inevitabile prendere atto che il fascismo impera in mezzo mondo e che l’idea che il libero commercio possa diffondere la libertà è solo un’illusione interessata e miope. Le sanzioni diventeranno la regola e la solidarietà dovrà accompagnarsi ai sacrifici. E se la democrazia non si può certo esportare, la si potrà “predicare” dando l’esempio, facendo vedere quanto può essere desiderabile la libertà e la possibilità, in essa, della giustizia. Al fondo il grande punto debole dei sistemi totalitari sono i loro popoli. Infine si sta chiudendo definitivamente, dopo centocinquanta anni, la disastrosa parabola del marxismo e si dovrà ripartire dal grande ideale ottocentesco della democrazia universale e, certo, della pace fra i popoli e di questi con gli altri animali e con il resto del creato. Sheri Berman denuncia il cosiddetto “campismo”, retaggio della Guerra fredda, fatto proprio da una sinistra che, rifacendosi ai realisti alla Kissinger, accampa il diritto delle potenze ad avere una “sfera d’influenza” e arriva a giustificare i peggiori crimini degli avversari degli Stati Uniti, accantonando così la lotta per la democrazia e i diritti umani. Taras Bilous si chiede perché così tante persone a sinistra abbiano fatto finta di niente davanti all’invasione russa. Ma detestare l’internazionalismo liberista non può portare all’assurdo di una sinistra che fa leva solo sulle contraddizioni interimperialistiche. Jeffrey C. Isaac ci parla del necessario sostegno, anche militare, della Nato a un’Ucraina che deve difendersi dall’invasione ingiusta e brutale e, insieme, della necessaria prudenza nell’evitare una precipitazione possibile in una guerra generale, potenzialmente anche nucleare e si chiede anche perché la sinistra ce l’abbia tanto con la Nato. Francesco Cataluccio ci racconta la storia dell’Ucraina, una storia complicata che inizia ben prima della Russia e che è all’origine della sua nascita, una Russia mai odiata ma che d’ora in poi lo sarà per i prossimi centocinquant’anni, per via dell’idea nefasta, cara a Putin, che dove si parla la stessa lingua è un unico paese. Konstanty Gebert ci descrive una Polonia accogliente, generosa, dove non c’è ormai famiglia che non ospiti qualche profugo ucraino in un clima che ricorda i primi mesi di Solidarnosc e però del rischio che, in assenza di politiche adeguate e di uno Stato efficiente, il clima possa cambiare. Michael Walzer ci parla di persone pacifiche, gente comune, che ha deciso di rischiare la propria vita combattendo per un’Ucraina democratica accogliente e rispettosa dei diritti di tutti i suoi cittadini. Nelle centrali le foto di Mariupol, la città martire. Sui temi della guerra e della pace pubblichiamo il carteggio fra Adriano Sofri e Lea Melandri apparso su “Il Foglio” e su “Il Riformista”. Per “ricordarsi” pubblichiamo stralci dal libro di Anne Applebaum, per Mondadori, che racconta cosa fu lo sterminio per fame dei contadini ucraini perpetrato da Stalin in nome della collettivizzazione forzata della terra. E poi, nelle lettere e interventi, Berardinelli su cosa pensava Umberto Saba dei dittatori e in particolare di Hitler, Zoran Herceg serbo di Bosnia sul paragone fra ciò che sta succedendo in Ucraina e quel che successe a Sarajevo; Belona Greenwood ci parla della gentilezza, che non è affatto debolezza; Wlodek Gorlkorn ci invita a guardare quel che succede dalla scalinata di Odessa, a metterci cioè nei panni dei popoli dell’Est. Infine pubblichiamo un’altra lettera di Andra Caffi a Prezzolini, sempre sull’Ucraina, scritta “dai corridoi” del distretto militare, presumibilmente sempre nel 1915. Infine “la visita” è alla tomba di Anna Politkovskaja. Redazione Una città via Duca Valentino 11, 47121 Forlì tel. 0543/21422 unacitta@unacitta.org “Spesso distogliamo gli occhi dalla realtà ingrata per non turbare la nostra tranquillità d’animo, ci sforziamo persino di non riflettere. Inventiamo molte scuse per convincerci che ciò che già sappiamo non corrisponde al vero: ripetiamo a noi stessi che la gente è incline alle esagerazioni e si lascia facilmente influenzare” Viktor Kravchenko (tratto da Ho scelto la libertà, 1948)

L’invasione russa dell’Ucraina rappresenta la più grande minaccia alla pace in Europa sin dalla fine della Guerra fredda e dalle guerre nella ex-Yugoslavia. Mantenere la pace in tutto il mondo è uno dei compiti primari della sinistra, per cui la sua risposta a questa crisi è di cruciale importanza; sfortunatamente, parte della sinistra è ancora impantanata in una patologia che l’ha indebolita sia moralmente che politicamente già nel corso della Guerra fredda, il “campismo”. Il campismo immagina il mondo suddiviso in due campi ostili: uno aggressivo e imperialista, guidato dagli Stati Uniti, e uno anti-imperialista, composto dagli “avversari” dell’America. Durante la Guerra fredda, questa weltanschauung manichea aveva già portato parti della sinistra a razionalizzare o ignorare i crimini commessi dall’Unione sovietica, dalla Cina o da altri nemici degli Stati Uniti. Anche a Guerra fredda conclusa, certa sinistra è rimasta ferma a questa visione del mondo, in cui le risposte agli eventi globali sono condizionate più da ciò a cui si oppone (gli Stati Uniti) che non da ciò per cui ci si dovrebbe battere, cioè i principi progressisti. Questo ha portato alcuni a sinistra a incolpare gli Stati Uniti per l’invasione dell’Ucraina, in quanto avrebbero presumibilmente minacciato la Russia attraverso la “spinta espansionistica” della Nato. Problemi empirici In questa posizione ci sono problemi di natura empirica evidenti. Lasciamo perdere il fatto che il presidente russo Vladimir Putin abbia negli anni recenti calpestato numerosi accordi internazionali che garantivano la sovranità dell’Ucraina. Se si guarda alla tempistica di questo intervento, così come di quelli nelle altre ex repubbliche sovietiche di Cecenia e Georgia, non si trova correlazione con veri e propri progetti di partenariato con la Nato. Per quasi tutta la prima decade del Ventunesimo secolo, l’Ucraina ha oscillato tra la Russia e l’Occidente. Anche all’indomani dell’intervento russo nelle elezioni del 2004 in Ucraina e dell’invasione della Georgia del 2008, il sostegno pubblico all’ingresso nella Nato del paese è rimasto basso. Ciò che ha cambiato tutto è stata quest’ultima aggressione diretta da parte della Russia. Nel 2013 è scoppiata la protesta dell’Euromajdan nella grandissima e centrale Piazza dell’Indipendenza (“majdan” significa “piazza” in ucraino). Il presidente di allora, il filo-russo Viktor Yanukovyc, si era rifiutato di firmare l’accordo di adesione all’Unione europea, già deliberato dal parlamento, e stava cercando di riallacciare i rapporti dell’Ucraina con l’unione economica euroasiatica a guida russa. Dopo mesi di proteste e scontri mortali tra i manifestanti disarmati e la polizia, Yanukovych è stato costretto a fuggire ed è stato rimpiazzato da un nuovo governo. Putin si è rifiutato di riconoscere l’esito della rivolta e, in quanto dittatore, ha iniziato a sentirsi minacciato dall’avere come vicino un paese (verso il quale i suoi stessi cittadini avvertivano un senso di fratellanza) sempre più rivolto verso l’Europa e che aveva rovesciato il regime di un leader che aveva ignorato il volere popolare e usato violenza sulla sua stessa popolazione. Putin ha dunque preso l’iniziativa di invadere l’Ucraina per annettersi la Crimea e sostenere i separatisti della regione orientale del Donbass (nel frattempo aveva anche già offerto il proprio sostegno alle dittature filo-russe della Bielorussia e del Kazakistan, e di altri paesi dell’ex impero sovietico, senza nemmeno la parvenza della foglia di fico di una potenziale adesione alla Nato come pretesto). Prima dell’invasione di Putin, la questione dell’adesione alla Nato non era nei programmi politici dell’Ucraina -ma, e questo non può sorprendere, ci è entrata dopo il 2014. Bizzarro e controproducente Mettiamo un attimo da parte la questione di quanto contasse per Putin l’adesione alla Nato; incolpare dell’invasione dell’Ucraina il desiderio di aderire alla Nato è bizzarro e controproducente per chi lo sostiene, dal momento che si fonda su di un principio cui solitamente la sinistra si oppone con veemenza. E cioè che grandi e potenti paesi come la Russia avrebbero diritto a una “sfera d’influenza”, mentre paesi più piccoli e deboli, come l’Ucraina, non hanno il diritto di autodeterminare le proprie alleanze né i propri destini politici -dovrebbero, insomma, accettare di essere sostanzialmente dei “cittadini di seconda classe nella comunità degli Stati” (questo, come qualcuno ha rilevato, costituisce “l’anti-imperialismo degli idioti”). Il campismo ha portato parti della sinistra a schierarsi con figure che fondamentalmente si oppongono a principi progressisti, perfino a citarli con favore. Per esempio, i campisti si riferiscono spesso agli argomenti dei “realisti” delle relazioni internazionali quali John Mearsheimer ed Henry Kissinger, due figure che, a differenza dei loro fan di sinistra dell’ultima ora, possono quantomeno vantare la virtù di essere sempre stati onesti e coerenti nel giustificare gli atti predatori delle grandi potenze, indipendentemente da chi li compiesse. I realisti credono che, per citare l’espressione resa nota da Tucidide, “i forti fanno ciò che vogliono, mentre i deboli soffrono come possono”. Altri campisti ancora hanno mostrato il proprio sostegno alle esternazioni di commentatori che simpatizzano con i peggiori dittatori di destra, come Tucker Carlson di Fox News, per la sua “posizione ragionevole sulla questione ucraina”. Questo atteggiamento ha condotto una certa sinistra a un atteggiamento di “westsplaining”, di paternalismo occidentale verso il resto del mondo, atteggiamento che solitamente si dice di aborrire. Come riferito dai professori polacchi, Jan Smolenski e Jan Dutkiewicz, “è sconcertante assistere all’interminabile processione di intellettuali ed esperti occidentali che con condiscendenza spiegano la situazione in una città 3 Il “campismo”, retaggio della Guerra fredda, oggi è fatto proprio da parte di una sinistra che, citando i realisti delle relazioni internazionali alla Kissinger, accampa il diritto delle potenze ad avere una “sfera d’influenza” e arriva a giustificare i peggiori crimini degli avversari degli Stati Uniti, accantonando così la lotta per la democrazia e i diritti umani. Di Sheri Berman. AVETE GIA’ PRONTO IL VOSTRO RIGHELLO? incolpare dell’invasione dell’Ucraina il desiderio di aderire alla Nato è bizzarro e controproducente cosa sta succedendo

Ucraina e in Europa orientali, spesso ignorando le posizioni emerse in quegli stessi territori, trattandole come oggetti e non come soggetti della storia, e che comunque pretendono di comprendere perfettamente la logica e le motivazioni dell’agire russo”. Questa sinistra finisce per dare per scontato che l’“espansionismo” Nato sia stato guidato dai desideri aggressivi e imperialisti degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale, più che dagli auspici degli abitanti dei paesi dell’Est Europa stessi. Un’altra studiosa polacca, Zosia Brom, ha usato termini più coloriti contro i “saputelli dell’Est Europa” (know fuck-all about Eastern Europe, Ndt), il cui “orientalismo” li spinge ad affermare di comprendere gli interessi dei popoli est-europei più e meglio di quanto non possano essi stessi: “Noi vediamo la Nato in maniera diversa, oserei dire più sfumata. Quando voi dite: ‘Fanculo la Nato’, o ‘Stop all’espansionismo Nato’, ciò che sento io è che non ve ne importa nulla della sicurezza e del benessere dei miei amici dell’Est Europa, dei miei familiari, dei miei compagni […]. O avete semplicemente deciso, come già avete fatto innumerevoli volte in passato, con tutti quei paesi verso i quali nutrivate un senso di superiorità, che sarete voi e i vostri leader a dare le carte, e con quelle noi dovremo giocare? Avete per caso già pronto il vostro righello per cominciare a tracciare delle belle linee dritte sulle mappe? Solo che, questa volta, la mappa su cui traccerete quelle linee sarà del posto in cui sono cresciuta io?”. Deboli e ipocrite Durante la Guerra fredda, il disgusto verso la politica estera americana ha portato una certa sinistra ad adottare una visione del mondo campista che andava oltre la critica giustificata agli Stati Uniti, spingendosi fino alla ingiustificata razionalizzazione dei crimini, spesso ben peggiori, dei suoi avversari. Nonostante la fine della Guerra fredda e l’avvento del ben diverso mondo multipolare in cui viviamo oggi, l’invasione russa dell’Ucraina ci rende chiaro che questa tendenza continua ad ammorbare parti della sinistra, portandola fino ad avanzare argomentazioni intellettualmente deboli e ipocrite per giustificare le azioni di un dittatore aggressivo. Così facendo, i campisti permettono agli avversari della sinistra di evidenziarne le debolezze, le ipocrisie e gli ovvi sentimenti antiamericani che si trovano sotto i loro argomenti. Non solo, si evitano così di affrontare le rivendicazioni assolutamente cruciali che la sinistra dovrebbe invece promuovere con tutte le sue energie: pace, democrazia, diritti umani e giustizia. (traduzione a cura di Stefano Ignone. questo articolo è stato pubblicato su Social Europe e IPS-Journal al link: https://socialeurope.eu/ time-to-decamp-from-cold-war-ideas) una città 4 Pavel Dorogoy dove sta l’alternativa alla Nato per cui lottate voi? Avete mai pensato di chiedere a noi dell’Est cosa ne pensiamo? cosa sta succedendo

Taras Bilous è uno storico ucraino, attivista dell’organizzazione Social Movement. Come redattore di “Commons: Journal of Social Critique” si occupa di guerra e nazionalismi. Scrivo queste righe da Kyiv sotto i colpi dell’artiglieria. Fino all’ultimo minuto ho sperato che le truppe russe non avrebbero lanciato un’invasione in piena regola. Ora posso solo ringraziare chi ha fatto trapelare l’informazione ai servizi di intelligence statunitensi. Ieri ho trascorso mezza giornata a valutare se unirmi o meno a un’unità di difesa territoriale. Nella notte, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha firmato l’ordine di mobilitazione generale, e le truppe russe si sono mosse per preparare l’assedio a Kyiv, prendendo di fatto la decisione per me. Prima di prendere servizio, però, vorrei comunicare alla sinistra occidentale cosa ne penso della sua reazione all’aggressione russa all’Ucraina. Prima di tutto, sono grato a coloro che, a sinistra, stanno picchettando le ambasciate russe -anche a quelli che ci hanno messo un po’ a realizzare che era la Russia l’aggressore in questo conflitto. Sono grato ai politici che sostengono misure per esercitare pressione sulla Russia, affinché interrompa l’invasione e ritiri le proprie truppe. Sono grato alla delegazione dei parlamentari britannici e gallesi, agli unionisti, agli attivisti che sono venuti a offrirci il loro aiuto e ad ascoltarci nei giorni precedenti all’invasione russa. Sono inoltre grato alla Ukraine Solidarity Campaign del Regno Unito per l’aiuto offerto in tutti questi anni. Questo articolo, però, riguarda l’altra parte della sinistra occidentale. Quella che aveva previsto una “aggressione della Nato all’Ucraina”, e che non riusciva a immaginare l’invasione russa -come, ad esempio, la sezione di New Orleans dei Dsa, i socialisti democratici d’America, oppure il comitato internazionale dei Dsa, che ha divulgato una dichiarazione indegna senza esprimere una singola parola di critica alla Russia (sono altresì grato al professore e attivista americano Dan Le Botz e ad altri che hanno manifestato il loro disaccordo con quella dichiarazione). O quelli che hanno criticato l’Ucraina per non aver implementato gli accordi di Minsk, gli stessi che però sono rimasti in silenzio sul mancato rispetto di quegli stessi accordi da parte della Russia e sull’esistenza delle cosiddette “repubbliche popolari”. O quelli che hanno esagerato l’influenza dell’estrema destra in Ucraina senza però accorgersi della sua presenza in quelle “repubbliche popolari”, e che non hanno mai espresso critiche all’indirizzo delle politiche conservatrici, nazionaliste e autoritarie di Putin. Tutto ciò è parte di un più ampio movimento contro la guerra, quello che di solito i critici di sinistra definiscono “campismo”. L’autrice e attivista anglo-siriana Leila AlShami ha usato un epiteto più forte: “l’antiimperialismo degli idioti”. Leggete il suo meraviglioso saggio del 2018, se non l’avete ancora fatto. Qui vi riporterò solo le tesi principali: l’attività di una gran parte della sinistra “pacifista” non aveva nulla a che fare con la fine della guerra in Siria. Si opponeva soltanto all’interferenza occidentale, ignorando, o persino sostenendo, l’impegno di Russia e Iran, per non parlare del loro atteggiamento nei confronti del “legittimamente eletto” regime di Assad. Scrive Al-Shami: “Un certo numero di organizzazioni pacifiste ha giustificato il proprio silenzio riguardo l’intervento russo e iraniano sostenendo che ‘il nemico numero uno ce l’abbiamo in casa’. Questo risparmia loro di intraprendere qualsivoglia seria analisi dei rapporti di potenza che permetterebbe di determinare chi siano effettivamente gli attori che stanno fomentando la guerra”. Sfortunatamente, abbiamo rivisto questo cliché all’opera anche per quanto riguarda l’Ucraina. Perfino dopo che la Russia aveva riconosciuto l’indipendenza delle “repubbliche popolari”, pochi giorni fa, Branko Marcetic, redattore della rivista statunitense di sinistra “Jacobin” ha pubblicato un articolo costituito quasi interamente da critiche agli Stati Uniti. E per quanto riguardava le intenzioni di Putin, si è spinto solo a sottolineare come il leader russo avesse “manifestato intenzioni non troppo buone”. Sul serio? Non sono un fan della Nato. So bene che dopo la fine della Guerra fredda quell’entità ha perduto la sua funzione difensiva e si è data a politiche aggressive. So che l’espansione orientale della Nato ha pregiudicato gli sforzi internazionali rivolti al disarmo nucleare e alla realizzazione di un sistema di sicurezza comune. La Nato ha provato a marginalizzare il ruolo delle Nazioni Unite e dell’Osce in Europa, gettando loro discredito e definendole “organizzazioni inefficienti”. Ma non possiamo riscrivere il passato e ora, per trovare una via di uscita da questa situazione, dobbiamo concentrarci sulle circostanze attuali. Quante volte la sinistra occidentale ha tirato fuori le promesse informali degli Stati Uniti all’ex presidente russo Mikhail Gorbaciov sulla Nato (“non un passo verso Est”), e quante volte ha citato invece il Memorandum di Budapest che garantiva la sovranità dell’Ucraina? Quanto spesso la sinistra occidentale ha sostenuto le “legittime preoccupazioni sulla propria sicurezza” della Russia, uno stato che dispone del secondo arsenale atomico più grande del mondo? E quanto spesso invece ha ricordato le preoccupazioni sulla sicurezza dell’Ucraina, uno stato che ha dovuto svendere le proprie armi nucleari sotto la pressione degli Stati Uniti e della Russia, per avere in cambio un pezzo di carta (il già citato Memorandum di Budapest), reso definitivamente carta straccia da Putin nel 2014? A chi critica la Nato da sinistra è mai capitato di pensare che è l’Ucraina la vittima principale dei cambiamenti operati con l’espansione della Nato? Ancora una volta, la sinistra occidentale risponde alle critiche alla Russia citando l’invasione americana dell’Afghanistan, dell’Iraq e di altri stati ancora. Certo, parliamo pure di questi stati -ma come dovremmo farlo, esattamente? L’argomento della sinistra dovrebbe essere una città 5 NOI VI OPPORREMO RESISTENZA Perché così tante persone a sinistra hanno fatto finta di niente davanti all’invasione russa? Detestare l’internazionalismo liberale non può comportare la non condanna della Russia né l’accettazione della giustificazione del suo presunta esigenza di sicurezza; il bisogno di una politica globale e di un sistema globale di sicurezza internazionale. Di Taras Bilous. la rivista statunitense di sinistra “Jacobin” ha pubblicato un articolo quasi interamente di critiche agli Stati Uniti cosa sta succedendo

che nel 2003 gli altri governi non hanno esercitato abbastanza pressione sugli Stati Uniti per indurla a desistere dal proposito di invadere l’Iraq. Non che ora sia necessario esercitare meno pressioni sulla Russia per quanto riguarda la questione ucraina. Un errore evidente Immaginiamo per un momento che nel 2003, quando gli Stati Uniti si preparavano a invadere l’Iraq, la Russia si fosse comportata come hanno fatto gli Stati Uniti nelle ultime settimane, e cioè minacciando un’escalation militare. E ora immaginate cosa avrebbe potuto fare la sinistra russa, in quella situazione -almeno, secondo il dogma del “nemico numero uno che abbiamo in casa”. Avrebbe criticato il governo russo per la minaccia di “escalation”? Dicendo, forse, che non si “dovrebbero mettere a rischio le contraddizioni inter-imperialiste?”. È ovvio a chiunque che in quel caso un tale comportamento sarebbe stato un errore. E allora perché non è altrettanto ovvio ora, che è in discussione l’aggressione all’Ucraina? In un altro articolo apparso su “Jacobin” a inizio febbraio, Marcetic si è spinto fino ad affermare che Tucker Carlson di Fox News aveva “ragione da vendere” circa la “crisi ucraina”. Anche Tariq Ali, di “New Left Review”, ha citato favorevolmente la considerazione dell’ammiraglio tedesco Kay-Achim Schönbach secondo cui “rispettare” Putin nella sua politica sull’Ucraina avrebbe comportato “pochi costi, quasi nulli”, dato che la Russia è pur sempre utile in chiave anticinese. Ma siamo seri? Se anche gli Stati Uniti e la Russia potessero accordarsi e scatenare una nuova Guerra Fredda contro la Cina e i suoi alleati, siamo sicuri che sarebbe uno scenario auspicabile? Riformare l’Onu Non amo l’internazionalismo liberale. Convengo che i socialisti dovrebbero essere suoi acerrimi critici. Ma questo non significa che dobbiamo sostenere la suddivisione del mondo in “sfere d’interesse” appartenenti a stati imperialisti. Invece di ambire a un nuovo equilibrio tra i due imperialismi, la sinistra dovrebbe lottare per la democratizzazione del sistema della sicurezza internazionale. Abbiamo bisogno di una politica globale e di un sistema globale di sicurezza internazionale. Quest’ultimo ce l’abbiamo già: sono le Nazioni Unite. Sì, hanno molti difetti, e spesso sono oggetto di meritate critiche. Ma si possono esprimere critiche sia per respingere al mittente qualcosa, sia per migliorarlo. Nel caso delle Nazioni Unite abbiamo bisogno di miglioramenti. Quello che ci serve è un’idea di sinistra su come riformare e democratizzare l’Onu. Naturalmente, questo non significa che a sinistra tutti debbano sostenere le decisioni dell’Onu, ma un rafforzamento generale del ruolo delle Nazioni Unite per la risoluzione dei conflitti armati permetterebbe alla sinistra di minimizzare l’importanza delle alleanze militari e politiche e ridurre il numero delle vittime (in un articolo precedente ho scritto di come i peacekeeper dell’Onu avrebbero potuto contribuire alla risoluzione del conflitto del Donbass. Sfortunatamente una possibilità che ora ha perso di rilevanza). Dopotutto, le Nazioni Unite ci servono per risolvere la crisi climatica e altri problemi globali; la riluttanza con cui molti della sinistra internazionale le prendono in considerazione è un terribile errore. Dopo l’invasione delle truppe russe in Ucraina, il caporedattore per l’Europa di “Jacobin”, David Broder, ha scritto che a sinistra “nessuno deve scusarsi per essersi opposto a una reazione militare degli Stati Uniti”, cosa che comunque non era nelle intenzioni di Biden, come ha già detto egli stesso in molteplici occasioni. Ma una gran parte della sinistra occidentale dovrebbe onestamente ammettere di aver commesso un errore gravissimo nel formulare la propria reazione alla “crisi ucraina”. Il mio punto di vista Concluderò scrivendo in breve della mia condizione e del mio punto di vista. Negli ultimi otto anni, la guerra del Donbass è stato l’argomento cardine che ha diviso la sinistra ucraina. Ciascuno di noi si è fatto una propria idea sotto l’influenza di esperienze personali e altri fattori. Pertanto, è probabile che un altro ucraino, sempre di sinistra, avrebbe scritto in maniera diversa questo articolo. Sono nato nel Donbass, ma in una famiglia ucrainofona e nazionalista. Negli anni Novanta mio padre, di fronte alla crisi economica del Paese e all’arricchimento della leadership di un Partito comunista che aveva combattuto sin da metà anni Ottanta, aveva cominciato a militare nell’estrema destra. Ovviamente aveva posizioni veementemente anti-russe, ma anche anti-americane. Ricordo ancora le sue parole, l’11 settembre 2001, mentre guardavamo le Torri gemelle crollare in diretta tv; aveva detto che i responsabili di quell’atto erano “eroi” (ora non lo pensa più, si è convinto che siano stati gli americani a farle crollare apposta). Quando è iniziata la guerra del Donbass, nel 2014, mio padre si era unito a uno dei battaglioni di volontari, mia madre era scappata da Luhansk e i miei nonni erano rimasti nel villaggio che poi sarebbe caduto sotto il controllo della “Repubblica popolare di Luhansk”. Mio nonno ce l’aveva contro la rivolta del Maidan. È ancora un sostenitore di Putin, il quale, a suo dire, “ha riportato l’ordine in Russia”. A dispetto di tutto questo, in famiglia proviamo ancora a parlarci (anche se non di politica) e ad aiutarci. Cerco di essere comprensivo con loro; dopotutto, i miei nonni hanno passato l’intera vita a lavorare in una comune agricola. Mio padre era un muratore. La vita con loro non è stata tenera. Quanto accaduto nel 2014 -una rivoluzione seguita da una guerra- ha sospinto me nella direzione opposta a quella in cui stavano andando in molti in Ucraina. La guerra ha spazzato via ogni spirito nazionalista presente in me e mi ha indirizzato a sinistra. Voglio combattere, sì, ma per un futuro migliore per tutta l’umanità, e non per una nazione. I miei genitori, con i loro traumi post-sovietici, non capiscono le mie posizioni socialiste. Mio padre è sprezzante del mio “pacifismo”, e abbiamo avuto una dura litigata, dopo che ho partecipato a una manifestazione anti-fascista con un cartello che invocava lo scioglimento del reggimento di estrema destra Azov. Quando Volodymyr Zelensky divenne presidente dell’Ucraina, nella primavera del 2019, speravo che questo potesse evitare la catastrofe cui stiamo assistendo ora. Dopotutto, è difficile demonizzare un presidente russofono che ha vinto le elezioni con un programma di pace per il Donbass, e le cui gag erano popolari sia tra gli ucraini sia tra i russi; sfortunatamente, mi sbagliavo. Mentre la vittoria di Zelensky aveva cambiato l’atteggiamento di molti russi nei confronti dell’Ucraina, ciò non è stato sufficiente a evitare la guerra. Negli ultimi anni ho scritto sul processo di pace e sulle vittime civili di entrambi gli schieramenti della guerra del Donbass. Ho provato a promuovere il dialogo. Ma tutto ciò è ora ridotto in cenere. Non ci sarà alcun compromesso. Putin può pianificare quanto vuole, ma anche se la Russia dovesse conquistare Kyiv e insediarvi un governo d’occupazione, noi vi opporremo resistenza. La battaglia durerà finché l’ultimo russo non avrà lasciato l’Ucraina e avrà pagato per tutte le vittime e la distruzione provocata. Pertanto, le mie ultime parole sono rivolte al popolo russo: sbrigatevi a rovesciare il regime di Putin. È nel vostro interesse quanto nel nostro. 26 febbraio 2022 (Traduzione di Stefano Ignone. questo articolo è stato pubblicato su openDemocracy al link: https://www.opendemocracy.net/en/ odr/a-letter-to-the-western-left-from-kyiv) una città 6 cosa sta succedendo anche se la Russia dovesse conquistare Kyiv e insediarvi un governo d’occupazione, noi vi opporremo resistenza

una città 7 Jeffrey C. Isaac è James H. Rudy Professor di Scienza Politica all’Università dell’Indiana, Bloomington. È autore di numerosi libri e articoli, tra cui Arendt, Camus, and Modern Rebellion (Yale University Press), Democracy in Dark Times (Cornell University Press) e #AgainstTrump: Notes from Year One (Or Books). È co-coordinatore e collaboratore del centro di studi Democracy Seminar e da tempo collabora con la rivista “Dissent”. Cura un blog dal titolo “Democracy in Dark Times” (jeffreycisaacdesign.wordpress.com). L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha visto aprirsi una spaccatura all’interno della sinistra in tutto il mondo. Cosa pensi di quanto sta accadendo? Ne sono sconvolto, si tratta sicuramente di un’invasione ingiusta e brutale. Ho un legame diretto con quel paese, dato che la mia nonna materna era ucraina, emigrata negli Stati Uniti dalla città di Cherkasy nel 1914. Ho amici ucraini, amici nell’est Europa, specialmente in Romania, che sento come la mia seconda casa, per cui sto prestando molta attenzione al conflitto, per motivi personali ma certamente anche perché sono uno scienziato politico, oltre che un essere umano. Ritengo che questa guerra rappresenti un’indicibile devastazione e che ciò che l’Ucraina è costretta a subire sia un atto criminale. C’è anche molto da temere riguardo le future implicazioni, il rischio di un’ulteriore escalation che porti il conflitto anche al di là dell’Ucraina. Credo sia davvero importante che Stati Uniti e Nato continuino a sostenere il governo ucraino, costretto a resistere all’invasione, e però sono anche convinto che vadano operate scelte caratterizzate da un certo grado di moderazione. Per esempio, non sono favorevole all’imposizione di una no-fly zone sul paese, né ad altre forme di intervento diretto che potrebbero trascinare Stati Uniti e Nato in uno scontro frontale con la Russia, cosa estremamente pericolosa per la possibilità di una guerra nucleare. Comunque, ci sono tutti i motivi di ritenere che si andrà a negoziati, ma attualmente Putin sembra interessato solo a infliggere distruzione e questo richiede una resistenza militare. Se però nel momento in cui Putin accettasse un cessate-il-fuoco rivendicando magari di poter restare in qualche modo nel Donbass, Zelensky continuasse a dire che “l’Ucraina deve lottare fino alla morte”, beh, credo che penseremmo che abbia perso il senno. Zelensky alla fine potrebbe vedersi costretto a compiere scelte davvero difficili. Ma ora non siamo ancora a questo punto. Oggi Putin non gli sta lasciando altra scelta se non quella di resistere alla distruzione e all’occupazione del suo paese, oltre che alla decapitazione della democrazia liberale ucraina, per quanto imperfetta e fragile. Zelensky sembra auspicare una reazione più forte da parte occidentale. Cosa credi si possa fare di più rispetto a quanto già è stato fatto? Prima di tutto, penso che sin qui Zelensky abbia operato saggiamente. Come ex uomo di spettacolo, la sua intera carriera si è centrata sulla sua capacità di performance in un contesto mediatico, e se pensiamo che anche personaggi davvero sinistri come Trump possono giungere al potere tramite i media, credo che l’uso fatto da Zelensky dei mezzi di comunicazione sia stato finora molto corretto. Sicuramente sceglie bene come presentare le sue richieste ai vari interlocutori e in generale mi sembra molto efficace. Capisco e comprendo la sua ricerca di sostegno. Penso che desidererebbe venisse imposta una no-fly zone, ma ciò che più gli serve è che prosegua il sostegno militare e che si inaspriscano le sanzioni energetiche ai danni della Russia, l’unico tipo di pressione politica che potrebbe spingere Putin a un qualche tipo di negoziato. Non credo che riuscirà a sconfiggere l’esercito russo, che nel frattempo continua a bombardare le città, ma sono sicuro che può tenere il fronte molto a lungo e rendere l’operazione bellica molto dispendiosa per il suo avversario. Comunque, ritengo che alcune cose che Zelensky ha detto circa la necessità della no-fly zone e sulla possibilità che se Putin non accettasse di negoziare si scatenerebbe la Terza guerra mondiale siano alquanto pericolose. Finora va rilevato che si è registrata una notevole unità tra gli alleati Nato, una sorta di consenso riguardo le sanzioni, ma anche un certo senso del limite. La Nato è un’alleanza molto complessa; molti membri europei non possono tagliare del tutto i legami con la Russia per via della loro dipendenza energetica. Nell’Europa orientale poi la questione è ancor più complicata, perché anche lì molti -in particolare nei paesi Baltici- vorrebbero la no-fly zone e un confronto militare diretto con Putin nel timore di ulteriori invasioni future, ma sono sicuro che nemmeno loro vogliano una guerra condotta con testate nucleari tattiche. Per cui, sì, tutte le parti avvertono il bisogno di considerare il senso del limite -anche se c’è già chi dice che ci troviamo in piena “Guerra mondiale 2.5” e che non ci possiamo sottrarre a una risposta militare diretta alla Russia. In generale penso che la Nato stia svolgendo un buon lavoro nell’osservare questo limite, pur continuando a sostenere l’Ucraina, compito molto difficile; una no-fly zone, d’altro canto, sarebbe qualcosa di estremamente più semplice: consisterebbe nell’abbattere gli aerei, i cosa sta succedendo Il necessario sostegno, anche militare, della Nato a un’Ucraina che deve difendersi dall’invasione ingiusta e brutale e, insieme, la prudenza nell’evitare una precipitazione possibile in una guerra generale, potenzialmente anche nucleare; le sanzioni da inasprire, ma anche il rischio di conseguenze che potrebbero minare la solidarietà agli ucraini; il problema delle sinistre rispetto alla Nato e il paragone con l’Iraq. Intervista a Jeff C. Isaac. FRA PUTIN E LA DEMOCRAZIA LIBERALE sono sicuro che nemmeno loro vogliano una guerra condotta con testate nucleari tattiche

una città 8 missili russi, nel bombardare la loro contraerea, insomma, nel condurre una guerra aperta. Sicuramente le sanzioni potrebbero essere inasprite, e personalmente lo auspico; se domani scoprissi di non poter più letteralmente fare rifornimento alla mia auto, o che in casa mia non ci fosse più elettricità, beh, mi piace pensare che sarei ancora solidale con l’Ucraina, ma temo che per molte persone questo non sia vero e posso capirle. È una questione politica e le opinioni pubbliche dei paesi membri della Nato hanno un loro peso nelle decisioni dell’organizzazione, anche se questo può disturbare le élites della politica estera. Per quanto riguarda Zelensky, il suo problema è fino a dove potrà spingersi nei negoziati pur mantenendo la legittimità di rappresentare il proprio paese. Sono sicuro che in questo momento ci sono consiglieri e membri del suo governo che, anche senza dirlo pubblicamente, gli fanno pressioni perché si impegni a ritornare allo status quo ante, a permettere ai russi di restare nel Donbass, dove peraltro sono presenti da almeno otto anni. Ma ci saranno anche altri consiglieri che invece gli suggeriscono di non cedere nulla a un invasore che li ha attaccati e ha portato la devastazione nelle loro città. La situazione è politicamente molto complessa, ma è anche un disastro umanitario, e non so se in questo momento il fatto che Biden abbia accusato Putin di essere un criminale di guerra abbia aiutato. Voglio essere chiaro: Putin è un criminale di guerra, ma ora il nostro obiettivo dev’essere fermarlo e temo che accusarlo in questo modo non sia il modo migliore per farlo. Negli ultimi giorni Biden si è spinto oltre, concludendo il suo forte discorso di Varsavia dicendo, in quella che sembrava essere un’osservazione “a braccio”, che cioè non faceva parte del discorso preparato, “Dio mio, quest’uomo [Putin] non può certo restare al potere”. Ritengo questa un’escalation estremamente pericolosa nella retorica della guerra, e la Casa Bianca, che ha immediatamente diramato una smentita anonima, sembra pensarla come me. Di nuovo, certo che possiamo sperare che il potere di Putin vacilli in Russia, ma questo non può essere un obiettivo di politica estera enunciato da un presidente Usa, e più la retorica si farà infiammante, meno probabile sarà una rapida risoluzione di questa guerra. Se non ci fossero potenze nucleari coinvolte, sarei certamente a favore di un intervento diretto degli Stati Uniti in questo conflitto, proprio come ero favorevole all’intervento in Kosovo. Ma la situazione è diversa. Adam Michnik, che è un amico, oltre che un mio eroe personale, una volta mi disse una cosa che mi rese tutto molto chiaro. Eravamo insieme a un convegno a Budapest quando cominciarono i bombardamenti Nato in Serbia e stavamo discutendo di questo: “Perché intervenire in Serbia e non in Georgia, o in Cecenia?”. Adam rispose semplicemente: “Perché in Kosovo si può”. Non perché ciò che Milosevic stava facendo in Kosovo fosse peggiore di quanto accaduto in Cecenia; la differenza è che la Cecenia non si poteva bombardare, mentre la Serbia sì. Ci sono forme di ingiustizia cui ti puoi opporre e ce ne sono altre in cui il prezzo sarebbe troppo alto. Dobbiamo sempre fare i conti con i limiti della possibilità. Certo penso che i confini della Nato siano importantissimi, per cui se il conflitto dovesse travalicarli, allora sì, ci sarebbe necessariamente un’escalation che condurrebbe alla devastazione globale. Prima dell’invasione russa, molti commentatori in Europa si dicevano sicuri che Putin stesse bluffando, che non si sarebbe mai spinto fino all’invasione, e che Biden, che invece dava credito a quella possibilità, fosse solo paranoico o, peggio, che volesse usare questa “scusa” per rafforzare la Nato ed espanderne i confini. I timori di Biden si sono tragicamente rivelati corretti; cosa ne pensa del presidente Usa? Uno dei suoi primi atti eclatanti è stato il ritiro dall’Afghanistan, e ora sembra alla guida della coalizione contro Putin, spingendosi fino a definirlo “criminale di guerra”. È diventato più “falco”? No, non direi che Biden sia diventato un “falco”. Ha assunto la carica in un momento incredibilmente precario, con molti repubblicani accodatisi a Trump nel non riconoscergli la vittoria e nel cercare di minare alle fondamenta gli stessi meccanismi del sistema elettorale democratico e, a parte questo, non è che abbia vinto con un gran margine. Quella situazione di precarietà persiste tuttora; credo che gli Stati Uniti si trovino in una situazione molto complicata, in cui la democrazia liberale sopravvive a malapena, appesa a un filo. In un certo senso, quanto sta accadendo ora in Ucraina è una distrazione da tutto ciò; Biden non è mai stato una figura politica energica, capace di ispirare le folle, ma credo che parte del motivo per cui è riuscito prima a conquistare la nomination democratica e poi la presidenza, sia proprio perché non era fatto così, perché incarnava il desiderio diffuso di un ritorno alla normalità, un’alternativa netta al cinismo e all’imprevidibilità di Trump. Ma tutti i presidenti, per quanto audaci, o energici, o dotati di grande carattere e moralità, quando assurgono alla carica scoprono che il mondo è in preda al caos, che tutto è complesso e che gli Stati Uniti devono operare considerando gli impegni già presi, i limiti all’azione politica. Insomma, che non si può fare tutto ciò che si vuole! Per cui ogni presidente si ritrova a dover improvvisare e Biden, di sicuro, sta improvvisando molto. Non mi è piaciuto il modo in cui ha gestito il ritiro dall’Afghanistan; certo doveva ritirarsi, ma avrebbe potuto farlo in macosa sta succedendo “perché intervenire in Serbia e non in Cecenia?”. Michnik rispose semplicemente: “Perché in Kosovo si può” fotoreserg Kharkiv

una città 9 niera più misurata, ponendo maggiore attenzione nel soccorrere più afghani che negli anni avevano lavorato con il governo degli Stati Uniti, o avevano collaborato all’intervento militare, o si trovavano a rischio. Questo è sicuramente vero, ma è altrettanto vero che ogni modalità di ritiro avrebbe riportato i talebani al potere e in qualsiasi modo avessimo lasciato il paese ci sarebbero stati effetti e ripercussioni negative -era da capire solo quanto negative. Certamente la Nato è importante per la politica estera statunitense, così come lo è per quella europea. Le cose stanno così. In quel campo, credo che Biden abbia gestito molto bene la situazione e sia riuscito a far recuperare un bel po’ di credibilità alla politica estera degli Stati Uniti, riuscendo nel difficile compito di fornire aiuti all’Ucraina senza spingersi troppo oltre. Il presidente sa bene che è probabile che alle elezioni di mid-term di novembre i repubblicani riusciranno a riconquistare la Camera, un pensiero che certo lo spaventa, come spaventa me, e che il suo consenso resta basso, anche se sono convinto che dall’inizio del conflitto la situazione sia leggermente migliorata. Credo che la possibilità di una rielezione, o comunque di una vittoria democratica alle presidenziali del 2024 siano davvero risicate e, naturalmente, c’è anche il problema della riforma delle leggi elettorali a far da sfondo a tutto questo; i repubblicani si stanno coordinando per modificare le leggi elettorali a livello dei singoli stati al fine di ridurre l’accesso al voto e consentire a forze di parte di decidere quali voti conteggiare, e i democratici non sono riusciti cosa sta succedendo c’è un motivo se alcuni paesi vogliono un posto nella Nato, e quel motivo ce lo sta rivelando Putin ora

una città 10 cosa sta succedendo a reagire a questa offensiva con leggi nazionali. Dunque dobbiamo tenere conto che Biden come presidente si ritrova a essere molto limitato da questi problemi, molto vulnerabile e, anche se non mi ha mai entusiasmato, certamente spero che riesca a prevalere sui repubblicani alle elezioni di quest’anno e alle presidenziali del 2024. Torniamo alla guerra: in molti, anche a sinistra, incolpano la Nato per quello che sta succedendo. Ho letto critiche da politologi realisti, come John Mearsheimer e Steve Walt, ma anche da sinistra, che concordano nel ritenere la Nato responsabile dell’esito della crisi russo-ucraina e che tutti i discorsi di Biden sul rafforzamento della Nato l’avrebbero di fatto esacerbata. Ma queste considerazioni partono dal presupposto che la Nato sia semplicemente ciò che gli Stati Uniti vogliono che essa sia; ebbene, non è così che funziona la Nato! C’è un motivo se i liberali democratici, ma anche quelli di sinistra di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e degli stati baltici vogliono un posto nella Nato, e quel motivo ce lo sta dimostrando apertamente Putin ora. Tutti quei paesi si erano liberati dell’egemonia sovietica e ora vivono a fianco di un regime autoritario che porta avanti la sua agenda imperialista eurasiatica, e per farlo è disposto a condurre guerre brutali, cosa di cui siamo ora tutti testimoni. I critici dicono che la Nato è un’imposizione occidentale, un mero strumento del Fondo monetario internazionale; certo, l’Fmi è importante, e ovviamente il capitalismo tende all’espansione su scala globale, e si è effettivamente espanso in quei paesi post-comunisti, ma questi ultimi -e non solo le loro élites finanziarie- hanno guardato a Occidente per un motivo. E ora che si trovano a dover scegliere tra il capitalismo e la liberal democrazia, da un lato, e il putinismo, dall’altro, beh, direi che non si tratta di una scelta ardua. Dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956, Albert Camus disse: “Se la scelta è tra sostenere un quarto di verità o una bugia, scelgo il quarto di verità, e quel quarto di verità è l’Occidente”. Credo sia l’approccio giusto per comprendere ciò che sta accadendo ora. La Nato non è un’utopia che condurrà alla pace e alla libertà nel mondo, né il capitalismo neoliberale è un sistema meraviglioso per tutti i popoli del mondo; certo che no. Certo che le democrazia liberali che si sono sviluppate nell’ex blocco sovietico, e anche alcune altre occidentali, sono molto fragili e corrotte. Tutto vero. Ma credo che una democrazia liberale vera, per quanti difetti possa avere, sia sempre meglio delle alternative disponibili, come il sistema del partito unico cinese, la Russia di Putin o le idee illiberali promosse da leader come Orban e Trump. Non tutti sono favorevoli a dare armi agli ucraini. Cosa pensa dell’atteggiamento dell’area pacifista? In queste settimane sto tenendo un corso sulla politica del New Deal negli anni Trenta e Quaranta negli Stati Uniti, con riferimento ai fatti globali, e naturalmente il corso è stato immaginato molto prima che accadesse tutto quello che vediamo ora. Lo scopo del corso era di analizzare le possibilità di Biden di realizzare un programma del tipo New Deal. Ma la misura globale di quanto sta accadendo, i sinistri presagi di una Terza guerra mondiale, certo, nulla di tutto ciò era nel programma, ma naturalmente ci è finito dentro. Ho presentato alla classe un discorso tenuto da Norman Thomas nel 1937, in uno dei momenti più difficili della Guerra civile spagnola. Thomas, leader del Partito socialista statunitense, era un pacifista che si era opposto all’ingresso degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale e in seguito sarebbe stato contrario anche all’intervento nella Seconda, e in questo discorso del 1937 aveva criticato quel Neutrality Act che poneva grossi limiti alla possibilità da parte degli americani di contribuire alla causa della Repubblica spagnola nonché la decisione di Roosevelt di imporre un embargo all’invio di armi in Spagna, dicendo, di fatto: “Dobbiamo lottare per bloccare i fascisti subito”. Negli anni Trenta la sinistra americana riteneva fosse necessario opporsi al fascismo. Non credo che Norman Thomas e gli altri pacifisti interventisti avrebbero mai sostenuto qualcosa di simile alla Nato, piuttosto erano per le brigate internazionali e auspicavano la venuta della rivoluzione spagnola; ma per ciò che mi pare di capire della cosiddetta “area pacifista”, ora, sento una forte retorica anti-imperialista che rischia di sfociare nel giustificazionismo delle guerre più brutali, come la Siria o l’Ucraina. Dire cose come “Che altra scelta ha Putin? Che poteva fare Assad?”, beh, questo non è pacifismo, è qualcos’altro, che credo cinico, moralmente e politicamente. Quando alcune settimane fa in un incontro in Indiana si parlava di quanto fosse importante sostenere la resistenza ucraina, una studentessa mi ha domandato cosa pensassi della posizione sulla guerra dei Dsa, i Democratic Socialists of America, una posizione di estrema sinistra, che se la prende con la Nato, insomma, una posizione da “area pacifista”, se vogliamo definirla così. Io facevo parte dei Dsa, sono stato prima studente e poi amico del loro fondatore, Michael Harrington, ma ora, a dire la verità, non sono interessato alla loro posizione. Oltretutto, non rappresentano chissà che forza nel paese. Certo che la Nato ha giocato un ruolo nell’evolversi della situazione! Ma se potessimo tornare indietro e rifare un mondo in cui Gorbaciov fosse rimasto al potere qualche anno in più o le idee di Vaclav Havel sulla “terza via” avessero avuto un impatto politico maggiore, avremmo un’Europa diversa, forse migliore, forse no (è sempre più facile immaginare che la strada non intrapresa sarebbe stata tutta rose e fiori) ma non è quello il mondo in cui viviamo. Per cui, sì, la Nato non ha le mani pulite, ma nel mondo in cui viviamo nessuna entità politica le ha. Ciò comunque non significa che la Nato sia responsabile del fatto che Putin sta bombardando Mariupol fino a polverizzarla. I pacifisti vengono oggi accusati di “neneismo”, cioè di non schierarsi né con la Nato né con Putin, così come vent’anni fa non si vollero schierare né con Bin Laden né con la Nato... Ogni situazione ha la sua specificità. Credo che l’area pacifista avesse basi morali e politiche più forti nell’opporsi alla guerra in Iraq, comunque diversa da quella in Afghanistan, e certamente molto diversa dai bombardamenti Nato in Serbia nel 1999. Ho sostenuto questi ultimi due interventi, mentre credo che il mondo sarebbe potuto essere diverso se la guerra in Iraq non fosse mai stata combattuta. Sicuramente Saddam Hussein era un dittatore pericoloso, ma non c’erano possibilità che da quella guerra venisse qualcosa di buono, e infatti ne è venuto solo altro male: morte, distruzione, risentimento, eccetera. E tuttavia, e so che ciò che sto per dire mi attirerà molte critiche, non credo che la strategia militare americana in Iraq sia mai stata quella di radere al suolo le città e produrre deliberatamente stermini di massa tra la popolazione civile. Non è una cosa che fa parte della dottrina militare Usa. Ciò che Putin sta facendo in Ucraina, ciò che ha fatto in passato in Siria, o a Grozny, è tutta un’altra cosa, molto più brutale. Ora so con certezza che la guerra in Iraq era sbagliata, ma penso anche che un pensiero politico sempre intento a cospargersi il capo di cenere assegnandosi tutte le colpe sul passato sia meramente moralistico; avrà anche uno Camus disse: “Se la scelta è tra un quarto di verità o una bugia, scelgo il quarto di verità” non credo che la strategia militare americana in Iraq sia mai stata di radere al suolo le città e sterminare i civili

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