Francesco Cataluccio ha studiato Filosofia a Firenze e Letteratura a Varsavia. Ha lavorato per oltre vent’anni nell’editoria, prima come redattore presso la casa editrice Feltrinelli e in seguito dirigendo la Bruno Mondadori e poi la Bollati Boringhieri. Ha scritto numerosi saggi sulla cultura e la storia della Polonia e del Centro Europa. È stato, tra l’altro, curatore delle opere di Witold Gombrowicz e delle opere complete di Bruno Schulz. Tra i suoi scritti ricordiamo, Immaturità. La malattia del nostro tempo, Einaudi, 2004, e Vado a vedere se di là è meglio, Sellerio, 2010.

Per capire la situazione in cui ci troviamo è importante ripercorrere la storia recente, ma anche quella più remota...
Dopo il 1989 e la caduta del Muro, si è posto il problema di come si dovessero collocare i paesi che appartenevano al cosiddetto blocco orientale, così come di quelli che avevano fatto parte direttamente dell’Unione sovietica, come per esempio i paesi baltici, l’Ucraina e tutti i paesi il cui nome finisce in -stan, Tagikistan, Uzbekistan, ecc. La storiografia non ha ancora acquisito una visione unanime nell’interpretazione dei passi compiuti dalle varie diplomazie. In queste settimane si è parlato di un impegno preciso -e però non scritto- che gli Stati Uniti avrebbero assunto… Cioè gli Stati Uniti si sarebbero impegnati a non intromettersi, non solo militarmente, ma anche dal punto di vista geopolitico, nelle zone che la Russia considerava come una necessaria fascia di protezione.
La Russia ha sempre giustificato il fatto che paesi come la Polonia e l’Ungheria stessero sotto la sua orbita, come una questione soprattutto di sicurezza: tra noi e l’Occidente serve un cordone sanitario visto che nel periodo ’39-’45 noi abbiamo sperimentato una tragedia che ci è costata venti milioni di morti.
Antonio Gambino, famoso responsabile esteri de “l’Espresso”, che scrisse vari libri per Laterza sulla geopolitica, sosteneva che l’Unione sovietica, più che sul comunismo, più che sulle idee, giustificava la sua presenza in questi paesi proprio con un discorso di sicurezza militare.
Anticipo che un discorso a parte merita l’Ucraina. Già Gorbaciov in alcune conversazioni con i dirigenti americani aveva sostenuto che quella era una cosa a sé, non si trattava di un paese amico, fratello, l’Ucraina faceva parte della Russia. Insomma l’Ucraina è proprio un’altra cosa.
Comunque i paesi dell’Est, anche alla luce della debolezza della dirigenza Gorbaciov, immaginavano (giustamente col senno del poi) che una volta che la Russia si fosse ripresa da quella che Putin ha definito “la più grossa catastrofe del Ventesimo secolo”, cioè la fine dell’Unione sovietica, avrebbe tentato di riprendersi quei territori in nome di una tradizione imperiale alla quale non ha mai rinunciato.
Dicevi che servirebbe una riflessione storica approfondita su quello che è stato l’Unione sovietica per la Russia.
A partire dal 1924, dal momento in cui Lenin muore e finisce la cosiddetta spinta rivoluzionaria, per cui c’è un Trotzky che prefigura che dalla Russia partirà la rivoluzione mondiale, c’è la Terza internazionale, i partiti fratelli…; ecco, a partire dal 1924, l’Unione sovietica diventa una sorta di maschera dell’imperialismo russo.
La Russia, cioè, approfitta di questa grande scenografia in cui molti hanno creduto, per la quale molti sono morti, per farne una perfetta copertura per la propria politica imperialista. Diversamente non si capisce per esempio il fatto che alla fine degli anni Trenta Stalin mandi a morire tutto il gruppo dirigente del Partito comunista polacco, in esilio in Russia, perché si opponeva al patto Molotov-Ribbentrop. Il patto Molotov-Ribbentrop non aveva nulla a che fare con il comunismo, era un patto politico-diplomatico che serviva alla Russia. Proprio perché serviva alla Russia, tutti i partiti comunisti dovevano assoggettarvisi. Questa sorta di inganno, per cui la Russia è la portatrice e la garanzia del comunismo (e non invece una delle due grandi potenze che si sono spartite il mondo, come i comunisti greci e i combattenti nella guerra civile spagnola sapevano benissimo) finisce nel 1989. Ecco, all’indomani del crollo del Muro, questi paesi sanno che molto velocemente la Russia tornerà sui propri passi e farà di tutto per riprendersi il controllo su quelli che storicamente considera paesi a lei affiliati.
Di qui la scelta dell’adesione alla Nato...
Quando ero a Varsavia e facevo gli studi di dottorato, il mio professore Bronislaw Geremek, grande studioso del Medioevo, uno dei principali intellettuali dell’opposizione polacca, ministro degli esteri alla fine degli anni Novanta, si era battuto affinché la Polonia, ma anche gli altri paesi dell’est europeo, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, ecc., diventassero membri addirittura prima della Nato e poi successivamente della Comunità europea. Perché -come mi spiegò in una chiacchierata che facemmo a Roma- solo così la Polonia avrebbe potuto finalmente essere un paese indipendente e democratico. Solo col cappello della Nato questo sarebbe stato garantito.
In questi ultimi anni tale prospettiva era risultata sempre più chiara anche all’Ucraina; di qui i tentativi di avvicinamento, che la Nato ha responsabilmente scoraggiato, perché altrimenti in questo momento avremmo una guerra di proporzioni ancora maggiori. O forse non l’avremmo perché, come sosteneva Geremek, quello sarebbe stato un deterrente molto forte contro un’espansione della Russia. Del resto in questi anni l’abbiamo ben visto: la Russia si espande dove non c’è una presenza americana. Basti pensare alla Siria: quando l’America ha deciso di non intervenire, si è creato un vuoto immediatamente riempito dalla Russia, con il risultato che oggi la Siria è di fatto un suo protettorato.
Allora, come dicevo, gli ucraini avevano capito questa cosa, e tuttavia una loro entrata nella Nato avrebbe messo a dura prova, diciamo così, la pazienza della Russia. Così negli anni passati la Russia ha potuto annettersi tranquillamente la Crimea senza che nessuno dicesse nulla; all’epoca le sanzioni sono state assolutamente inefficaci e, infine, con l’aiuto di truppe mercenarie più o meno camuffate, si è introdotta nel Donbass, nelle regioni orientali dell’Ucraina, scatenando una guerra che, come ci hanno ricordato gli ucraini in queste settimane,  durava ormai da otto anni. Una guerra a bassa intensità, ma sempre una guerra.
Che dire? Pur con tutte le mie riserve rispetto alla Nato, a chi comanda la Nato, io resto pienamente convinto che noi occidentali nel dopoguerra ci siamo in fondo un po’ accomodati su questa idea che tanto c’erano gli americani che ci difendevano. Intendiamoci: una difesa tutt’altro che disinteressata.
L’appartenenza alla Nato ha avuto un costo, delle conseguenze; pensiamo a Gladio, a certe trame che ci sono state e che hanno messo in seria discussione la nostra democrazia. Insomma, l’appartenenza alla Nato non è una cosa tutta rose e fiori. Detto questo, in una situazione di confronto che non è mai finito, perché poi negli anni Sessanta viene costruito il muro di Berlino, c’è il ’68 in Cecoslovacchia; ecco, in una situazione del genere, appartenere alla Nato dà delle garanzie, come del resto riconobbe anche Enrico Berlinguer in una famosa intervista al “Corriere della Sera” che fece molto scalpore; io allora militavo nel Pci e ricordo che si rischiarono scissioni… Quella sua frase -io mi sento più sicuro sotto i missili della Nato che non nel Patto di Varsavia- che era una verità quasi banale, per le tante persone che continuavano a credere che il comunismo e l’Unione sovietica fossero la stessa cosa rappresentò un grande scandalo.
Putin, già prima dell’invasione, aveva detto: “Noi non ci fermeremo all’Ucraina”. Infatti, i paesi baltici e la Polonia sono spaventati. Ovviamente nel loro caso è veramente difficile che succeda qualcosa perché la Nato, essendo quello il confine, ha installato basi, ci sono missili… Certo, è anche un cane che si mangia la coda: la Russia sostiene che proprio la presenza di missili e basi costituisce un pericolo; al contempo le basi sono esattamente la garanzia per questi paesi che, una volta che si fosse eventualmente mangiata l’Ucraina, la Russia non si riprenda i paesi baltici, in particolare la Lettonia, dove la teoria romantica secondo la quale dove c’è uno che parla la mia lingua lì c’è il mio paese, che è una delle più grandi disgrazie dell’Europa, potrebbe scatenare nuovi disordini...
Anche Milosevic lo diceva…
È una delle teorie del romanticismo quella che lega la lingua alla nazionalità. Ora, siccome per molti paesi nell’Ottocento la nazione non c’era, basti pensare alla Polonia, si sviluppa la teoria per cui, anche in assenza di confini definiti, dove si parla quella lingua lì c’è la nazione. Questo, se da una parte può essere positivo, dall’altra introduce un elemento devastante. Anche Hitler rivendicava Danzica, e aveva pure ragione, perché Danzica è una città tedesca, c’era nata la mamma di Schopenhauer, per dire. Tuttavia, se si diffonde questa idea che dove si parla una lingua lì io posso avanzare delle pretese, per cui visto che in Transilvania si parla ungherese, non mi importa che ora si chiami Romania; o, ancora, visto che in Alto-Adige si parla tedesco... Insomma, questo introduce un elemento di instabilità terribile.
Oggi Putin, da buon ultimo, ripropone questo criterio, per cui dove si parla russo è Russia. La Lettonia, per esempio, è un paese dove esiste una minoranza russofona molto consistente, ed essendo molto più consistente è anche più tartassata, perché i lettoni si ricordano cos’è stata l’Urss, e vogliono evitare che torni la Russia, per cui trattano effettivamente male questi russi, nel senso che la loro lingua non viene riconosciuta, eccetera.
Anche molti profughi ucraini russofoni che ho incontrato riportavano questa cosa: “Per noi la fine dell’Unione sovietica non è stata indolore; nel giro di pochi anni se andavo alla posta e parlavo russo, l’impiegato faceva finta di non capire: ‘Parli ucraino, questa è la lingua del nostro paese’”. Molte delle signore ucraine con cui ho parlato denunciavano le difficoltà e le angherie subite. E tuttavia aggiungevano: tra stare in un paese democratico com’è l’Ucraina, con tutti i suoi problemi, la corruzione… e stare sotto la Russia, beh, cento volte meglio stare con l’Ucraina!
Putin e i suoi generali si aspettavano di essere accolti dall’altra parte del confine con il pane, il sale, i fiori… beh, non è successo, e quelli che non li hanno accolti con il pane, il sale e i fiori sono stati proprio gli ucraini russofoni, che non avevano e non hanno tuttora nessuna voglia di tornare sotto la Russia! Infatti Kharkiv l’hanno dovuta radere al suolo perché, nonostante quel milione e mezzo di persone che in maggioranza parlano russo, non vuole assolutamente diventare una città russa. Casomai anche per motivi economici...
Qui andrebbe introdotto un altro aspetto importante e spesso sottovalutato, che è quello riportato all’attenzione dalle dichiarazioni di Kirill, il principale esponente della chiesa ortodossa russa, che si è lanciato in un attacco contro l’Occidente malato, pieno di omosessuali, dove si fanno i gay pride ovunque; è questa idea che l’Occidente non sarebbe spirituale e invece la Russia sarebbe ricca di religiosità, di valori alti…
Si potrebbe anche aprire una parentesi su tutta questa discussione che è nata intorno alla stupida iniziativa di impedire a uno scrittore di parlare di Dostoevskij, sulla cui onda l’ambasciata russa, seguita da tutta una serie di persone, ha per giorni e giorni denunciato una sorta di russofobia…
Apriamo allora una parentesi su Dostojevskij...
Dostojevski è un immenso scrittore, però discutere per esempio della sua ideologia non sarebbe male. Già molti anni fa ci fu un dibattito importante tra Milan Kundera, Kazimierz Brandys e Josif Brodskij su questi aspetti. Se uno si legge il libro di Steiner, Tolstoj o Dostojevskij, o si legge addirittura le lezioni che faceva Nabokov all’università sulla letteratura russa, beh, quando si arriva a Dostojevskij, Nabokov dice: “Non lo sopporto, è un reazionario”; insomma, è un grande scrittore, profondo, però è portatore di una visione reazionaria della vita, con un aspetto misticheggiante, ma non solo.
Il libro che Dostoevskij scrive di ritorno dal suo viaggio in Europa, intitolato Note invernali su impressioni estive, tradotto anche in italiano, è il manifesto dell’anti-occidentalismo. Lui ha fatto un viaggio in Europa, ha giocato nei principali casinò, ha perso tutti i soldi che aveva, la sua amante parigina non l’ha aspettato, è tornato in Russia arrabbiatissimo e ha scritto questa cosa qua, che è la descrizione di un mondo decadente, senza futuro.
Sono temi che riprende lo stesso Solgenitsin, che negli ultimi anni scrive: “Noi siamo la spiritualità, voi siete la decadenza”. Non è un caso che Putin, o chi gli scrive i discorsi, lo citi spessissimo. Tanto il fatto che sia stato nel Gulag lo si dimentica, non è importante; lui viene citato in quanto portatore di un’ideologia russa. Quando nel 1991 l’Ucraina diventa finalmente un paese indipendente, Solgenitsin pronuncia la famosa frase riportata anche da Putin: “Gli ucraini stanno abbattendo le statue di Lenin, però beneficiano dei confini da lui costruiti”. A ribadire che l’Ucraina non esiste, in quanto sarebbe un’entità costruita artificialmente dopo il 1917, dopo la rivoluzione bolscevica. Operazione considerata dalla storiografia putiniana come un enorme errore.
Cioè, mentre era un’operazione accettabile per l’Armenia, per l’Azerbaigian, dire che esisteva una repubblica socialista ucraina significava offrire a quel territorio uno statuto di indipendenza dalla Russia assolutamente sbagliato. E infatti i problemi nacquero quasi subito. Intanto perché questa repubblica socialista ucraina era già allora la più grande nazione d’Europa come estensione, ma poi era un territorio ricchissimo. Campi immensi, una terra nera molto fertile; un paese contadino che dava i suoi frutti a tutta l’Europa.
Ebbene, questi contadini, dopo la rivoluzione pensarono di essere finalmente liberi. Già sotto gli zar c’era stata un’abolizione -più formale che sostanziale- della servitù della gleba, ma loro pensavano di essersi finalmente emancipati e di potersi coltivare il proprio pezzo di terreno. Inizialmente gli fu permesso e si creò la classe dei kulaki, i contadini ricchi, anche se poi parliamo di gente che aveva un ettaro e mezzo di terreno. Però erano proprietari, e questo già suonava male, e poi erano relativamente benestanti. Per cui quando venne decisa la riforma agraria per tutta l’Unione sovietica, loro si ribellarono. E la reazione di Stalin e dei suoi dirigenti (ricordo che il principale rappresentante di Stalin in Ucraina era Kruscev) fu quella che l’Onu ha definito (con voto contrario della Russia) un genocidio: tra il 1932 e il 1933 morirono di fame tra i cinque e i sette milioni di persone. L’Unione sovietica decise infatti di creare una sorta di cintura sanitaria intorno all’Ucraina, di requisire con la forza l’intero patrimonio zootecnico, le sementi, ecc., e la popolazione di fatto venne affamata. In Tutto scorre di Vasilij Grossman, anche lui ucraino, ci sono dei racconti spaventosi, con episodi anche di cannibalismo…
Qui il punto è che l’Ucraina negli anni Trenta viene massacrata dall’Unione sovietica. Questo spiega perché quando nel 1941 arriveranno i tedeschi, loro sì, almeno inizialmente, verranno accolti con il pane e il sale; ci sono dei documentari che mostrano come i tedeschi venissero salutati come una sorta di liberatori, perfino dagli ebrei, che speravano fosse finito questo incubo; non immaginavano che per loro iniziava un incubo peggiore. Ci misero poco a capirlo.
Questo passato drammatico spiega dunque perché in Ucraina ci siano stati fenomeni di collaborazionismo con il nazismo. Le bande dei nazisti ucraini erano tra le più feroci nei lager; Primo Levi ricorda come questi uomini con il cappello nero fossero i più sadici. Nel ghetto di Varsavia, quando arrivarono le truppe ucraine, si scatenò il panico totale, perché erano famosi per la loro ferocia.
Detto tutto questo, identificare queste frange con il popolo ucraino è veramente una bestialità, soprattutto se a farlo siamo noi italiani che non è che non abbiamo collaborato, non è che non abbiamo fatto delle porcherie insieme ai tedeschi... ma, ad ogni modo, identificare un popolo intero con una frangia di criminali è un’operazione propagandistica inaccettabile.
Dopo la guerra molti ucraini decisero di continuare la loro battaglia per l’indipendenza, per un’Ucraina libera. I portavoce di questa tendenza erano soprattutto le forze più reazionarie, più di destra. La figura di Bandera, che viene sempre tirata in ballo, è quella di un personaggio estremamente controverso: inizialmente aveva combattuto i tedeschi, poi aveva capito come andavano le cose quindi aveva cominciato a combattere i russi… Un personaggio alla Jabotinski, che aveva studiato vicino ad Anzio con il fascismo, perché il fascismo trattava gli ebrei sionisti come alleati contro il nemico comune che era l’Inghilterra… ecco Bandera dopo la guerra continua questa lotta e viene poi ammazzato a Monaco di Baviera, tra l’altro dal controspionaggio russo.
Resta il fatto che in Ucraina c’è stata una guerra civile che è durata fino al ’56-’57, di cui noi non sappiamo nulla, perché la propaganda ha sempre detto che erano tutti fascisti (se combattevano contro l’Unione sovietica dovevano essere tutti fascisti, tutti antisemiti, ma non è così).
Questo per dire che interpretare il fatto, come fa Putin, che in molte piazze dell’Ucraina, al posto di Lenin, si sia messa la statua di Bandera come un segno che quello sarebbe un paese nazista, è veramente antistorico.
Venendo agli anni più recenti, va detto che l’Ucraina è un paese ricco, che però viene da sempre trattato dalla Russia come una colonia. La vicenda di Chernobyl e di queste centrali che erano scassate già in partenza rivela il tipo di rapporto che vige tra il centro e l’Ucraina. L’Ucraina -lo scopriamo in questi giorni- è un paese pieno di centrali nucleari. Perché? Perché i russi non le volevano all’interno del loro territorio e allora le mettevano in questa loro colonia.
La storia dei rapporti tra Ucraina, Russia e Polonia è molto affascinante e intricata...
La storia non è maestra di vita, però fa capire certe cose. Per esempio nel rapporto fra la Polonia e l’Ucraina è molto importante conoscere le vicende che hanno segnato il lontano passato. Tra l’altro l’Ucraina nasce molto prima della Russia. Agli inizi dell’anno Mille, quando al Cremlino c’era un bosco e una capanna di legno, l’Ucraina era un posto dove si costruivano delle chiese meravigliose che i russi si guarderanno bene dall’abbattere. È lì che nasce poi la Russia, infatti si chiama la Russia di Kiev, la Rus’ di Kiev. Quindi anche questo negare che esista una nazione Ucraina... l’Ucraina esiste da prima della Russia! La Russia esiste dal 1400, metà del 1300, prima c’era l’Ucraina.
Questa storia molto lunga si può sintetizzare con uno schema: quando vengono cacciati i cavalieri teutonici, in Ucraina ci stanno i polacchi, che sono i signori, quelli che hanno le proprietà. Gli ucraini, i cosacchi, sono in fondo dei cowboy, persone che si occupano delle bestie; i cosacchi e gli ucraini sono il popolo. Cioè, ci sono i signori polacchi che dominano e sotto ci sono i cosacchi e i contadini. In mezzo fra queste due realtà sociali ci sta un’altra fascia, che sono gli ebrei. Perché i polacchi, non fidandosi degli ucraini e approfittando del fatto che molti ebrei erano in fuga dalla Germania in seguito alle manifestazioni di antisemitismo, danno loro la possibilità di entrare in Ucraina attraverso la Polonia e di svolgere tutta una serie di ruoli di intermediazione. Cioè, gli ebrei sono la burocrazia, sono quelli che hanno il monopolio sugli alcolici, eccetera. Questo spiega anche l’insorgere di sentimenti antisemiti da parte della popolazione contadina, nel senso che l’odio per i polacchi, cioè per i signori, si trasferisce nell’odio per chi rappresenta lo strumento del loro dominio.
Le cose cambiano nel 1600 quando la Russia, diventata forte, fa esattamente quello che ha fatto oggi nel Donbass, individua una minoranza all’interno del paese, i cosacchi, e li finanzia, li appoggia. Prende così forma la ribellione animata dal cosacco Bogdan Chmielnicki che dichiara guerra ai nobili polacchi, ma anche agli ebrei. I primi massacri degli ebrei in Europa li fanno i cosacchi insieme ai russi. Dopo la guerra russo-polacca, il dominio della Russia sull’Ucraina è totale. Un dominio su una terra, a quel punto, piena di contadini poveri e con la più grande popolazione di ebrei di tutta Europa, se non del mondo. È lì che poi cominciano, fomentate dagli zar, le persecuzioni, i pogrom -pogrom è una parola russa. Si tratta di un fenomeno che inizia appunto in quel periodo e che vede la stessa polizia zarista incitare i contadini ad ammazzare gli ebrei.
Nel film di animazione prodotto da Spielberg “Fievel sbarca in l’America” viene raccontata la storia di questi topolini ucraini che dopo l’ennesimo pogrom dei gatti che assaltano il loro paesino, decidono di emigrare in America. Alla fine dell’Ottocento gli Stati Uniti assistono a un’enorme immigrazione ebraica dall’Ucraina; in Canada quella ucraina è la prima comunità etnica dopo quella francese e inglese. Molti ebrei e anche molti contadini ucraini, in questi anni, emigrano dall’altra parte dell’oceano. Questo è un po’ il quadro storico.
Quindi i polacchi non hanno mai avuto buoni rapporti con gli ucraini, anche perché la parte occidentale dell’Ucraina, dove c’è Leopoli, la zona dove c’è più resistenza, fino al 1945, fino allo scoppio della guerra, era Polonia. La parte orientale della Polonia era la parte occidentale dell’Ucraina. Con gli accordi di Yalta quella parte venne presa dai russi e in cambio ai polacchi venne data la parte tolta ai tedeschi, i territori di Breslavia, Danzica, Stettino, ecc. Nel ‘45 questa parte della Polonia si ritrova all’interno dei ridisegnati confini dell’Ucraina e anche lì avvengono dei massacri terribili, cioè gli ucraini si pigliano la loro vendetta contro i polacchi, che sono costretti a fuggire; parliamo di due-tre milioni di persone che nel giro di poche settimane si trasferiscono in Polonia in fuga dalle terre occidentali. Per dire, Adam Zagajewski, uno dei maggiori poeti della Polonia contemporanea, era nato a Leopoli; così come il poeta Zbigniew Herbert o Stanislaw Lem, l’autore di Solaris; c’è tutta una letteratura polacca che trova le sue origini in quelle terre. Erano tutti ebrei della medio-alta borghesia che vivevano a Leopoli e che nel 1945, senza pensarci un attimo, prendono e si trasferiscono a Cracovia.
Oggi la Polonia sta mostrando un atteggiamento di grande e inattesa solidarietà nei confronti degli ucraini.
Si calcola che ad oggi siano arrivati in Polonia oltre due milioni di ucraini. Quanto può durare questa solidarietà? Questa è una grande domanda. Tanto che viene il sospetto che la vera bomba atomica, non chiaramente programmata, di Putin, possa essere il problema dei migranti. Se questa situazione dovesse durare ancora mesi, il numero dei migranti, secondo le organizzazioni internazionali, è destinato a raggiungere i cinque milioni di persone, un numero impossibile da gestire per tante ragioni.
Tutte le persone con cui ho parlato nel mio recente viaggio in Polonia dicono molto chiaramente che loro non intendono muoversi di lì perché vogliono essere pronte a rientrare in Ucraina. Trattano la Polonia come una sorta di bunker temporaneo, dove metti al riparo la famiglia, ma sei anche pronto a tornare a casa appena possibile. E alla mia domanda: “Ma se la tua casa non c’è più?”, rispondono: “Non importa, la ricostruiremo”. Insomma, gli ucraini vogliono tornare in Ucraina.
Una famiglia di afghani che si presenta al confine bielorusso in fuga dalla guerra, dalle ingiustizie, dalla povertà ha come obiettivo di trovare un lavoro e vivere decentemente in Germania, in Svezia, in Italia… Gli ucraini non vogliono rimanere in Polonia e attualmente vengono anche trattati come dei “temporanei”. Se però questo fenomeno temporaneo diventa, diciamo, endemico, beh, allora c’è di che preoccuparsi.
A Varsavia ci sono 95.000 ragazzini che devono andare a scuola; riorganizzare le scuole non è una cosa semplice. E poi parliamo di persone che non hanno una lira, per cui prima o poi si cercheranno un lavoro, incrementando il lavoro nero, e anche questo creerà dei problemi.
Le destre polacche hanno già cominciato a soffiare sul fuoco: “Noi diamo sussidi di trecento euro a queste persone per poter vivere, ma anche noi abbiamo un sacco di gente che avrebbe bisogno di un aiuto per vivere…”.
Insomma, la situazione è gestibile nella misura in cui rimane limitata nel tempo. Se viene meno lo sbocco, la prospettiva, può davvero trasformarsi in una bomba, scatenando in Europa una quantità di problemi perfino più gravi della fornitura del gas per le nostre cucine e per le nostre imprese. Non so quanti se ne stiano rendendo conto fino in fondo.
Dall’altra parte bisogna dire che questa situazione di guerra guerreggiata, di vittoria che doveva avvenire in tre giorni e non è avvenuta, anch’essa non può continuare così, perché ha un costo enorme anche per la Russia. Se una tale situazione si protrarrà per altre tre-quattro settimane, secondo alcuni analisti americani, è probabile che ci sia un colpo di stato militare in Russia.
I militari sono molto arrabbiati. Per quel poco che sappiamo, la guerra è stata decisa da Putin insieme all’apparato di sicurezza che lui ha ingrandito a dismisura, ma contro il parere dell’esercito. Perché l’esercito sa benissimo due cose: primo, che negli ultimi venticinque anni la Russia ha impiegato molti soldi in armi stratosferiche, da guerre stellari, che però in questo contesto non servono a niente...
Anche il famoso ricatto atomico “Se mi fate arrabbiare pigio il bottone” non esiste, perché chiunque sa che se pigi il bottone due minuti dopo non ci sei più neanche tu. In Russia il bottone ce l’hanno tre persone: Putin, il ministro della difesa che è un generale, e il comandante in capo delle forze armate. Quindi due militari e Putin. Beh, su quei due militari io ci scommetterei la testa che quel bottone non lo pigerebbero mai.
L’esercito quindi è arrabbiato per questa scelta di aver speso tutto in cose supersoniche per poi ritrovarti con dei carri armati pessimi che ti si aprono come il burro quando gli ucraini sparano i missilini che gli hanno dato gli inglesi: ma poi c’è il fatto che le truppe non vogliono combattere. Pare che molti dei russi fatti prigionieri abbiano raccontato di non avere capito perché stanno combattendo contro gli ucraini che loro per primi considerano dei russi.
Una delle cose più terribili che un giorno dovrà essere imputata a Putin è che gli ucraini, al di là di tutto, amavano i russi. Tra russi e ucraini ci sono tante cose in comune. I più grandi scrittori, Bulgakov, Babel, Gogol sono ucraini. Gli ucraini con cui ho parlato mi dicevano: “Io i russi non li odio, non capisco perché ci facciano questo…”. Ecco, tra le tante conseguenze di questa guerra ci sarà che per centocinquant’anni un popolo di trenta-quaranta milioni di persone odierà i russi, mentre prima non li odiava. Voglio dire: a differenza dei polacchi, che odiano i russi, gli ucraini non li odiavano affatto, odiavano il comunismo magari, ma non i russi! Avevano capito prima di noi che le due cose non c’entravano niente l’una con l’altra.
Questo è un problema anche per i soldati russi, che infatti non hanno voglia di combattere.
Tra l’altro pare sia stato scelto il periodo peggiore per fare una guerra, e i militari lo sapevano. Il motivo per cui Hitler nel ’41 invase la Russia in piena estate è perché in primavera c’è il disgelo e i carri armati si impantanano. A quel punto la guerra sul terreno diventa veramente problematica e l’unica cosa che puoi fare è distruggere sparando missili o bombardando con gli aerei. L’altro giorno c’era un’intervista sul “Corriere della Sera” a una cecchina ucraina che diceva che lei dall’alto li vede avanzare: davanti ci sono i soldati russi e dietro di loro ci stanno i ceceni. I ceceni hanno la stessa funzione dei carabinieri in Italia nella Prima guerra mondiale: ammazzare chi si volta e cerca di scappare.  
Quindi c’è un clima spaventoso che si riflette anche nel fatto che sono morti sette generali. Non è mai successo in una guerra moderna. Perché succede? Un addetto militare abbastanza anziano mi ha spiegato che siccome le truppe non vogliono combattere, i generali sono costretti a stare in prima fila.
Parliamo della Russia. Qual è stata la reazione del mondo intellettuale e che ruolo possono avere queste persone?
Io sono stato molto colpito dalla reazione degli intellettuali russi. È una cosa che non si era mai vista. Fin dai primi giorni ci sono state centinaia di lettere firmate da studenti e professori universitari che si dichiaravano contro la guerra. Per non parlare di Marina Ovsyannikova, la giornalista russa che ha mostrato il cartello contro la guerra in tv. Sono atti di coraggio la cui portata noi non riusciamo nemmeno a immaginare; queste persone possono essere espulse dall’università se gli va bene, o essere condannate a quindici anni di galera! Eppure, soprattutto nelle grandi città, c’è questa forte opposizione alla guerra.
D’altra parte non dimentichiamo che sono morti più di diecimila soldati e diecimila soldati significano diecimila madri. Nella guerra in Afghanistan e anche in Cecenia le madri hanno avuto un peso molto forte. Attenzione perché bastano due madri per ritrovarsi il paese contro. Perché quando ti torna la bara del figlio e inizi a chiedere: “Cosa ci faceva lì mio figlio, cosa difendeva?”. Andava a de-nazificare l’Ucraina? Ma stiamo scherzando? Oggi gli intellettuali stanno facendo l’impossibile. Il problema è che chiudono tutto, non c’è più un giornale indipendente: “Novaya Gazeta” è stata chiusa, Memorial è stato chiuso… La gran parte della popolazione ha un’unica fonte d’informazione.
L’altra sera Lilli Gruber riportava i dati di un’agenzia indipendente, tra virgolette, che diceva che il 70% dei russi sono a favore della guerra; Lucio Caracciolo confermava la serietà dell’istituto. Non so, è difficile immaginare cosa significhi per un russo ricevere una telefonata o essere fermato per strada da uno che ti chiede: “Scusi, ma lei cosa pensa di Putin?”. Siamo così ingenui da pensare che qualcuno possa serenamente rispondere dicendo quello che pensa veramente? Ho molti dubbi... Un russo, la prima cosa che pensa di uno che gli telefona o gli fa una domanda per strada è che sia un agente provocatore. Parlare di sondaggi d’opinione in un regime totalitario, come di fatto è la Russia, è ridicolo.
Voglio raccontare un aneddoto. Quando dirigevo la Bollati Boringhieri avevamo pubblicato un testo fondamentale per la storiografia, Le categorie della cultura medioevale, scritto dallo storico russo Aron Gurevic; un libro molto importante tradotto in varie lingue. La Bollati Boringhieri ne ha poi pubblicato varie edizioni. Gurevic tra l’altro era amico di Geremek, faceva parte di quel gruppo di persone che a un certo punto all’università avevano capito che se si occupavano di storia contemporanea finivano in galera. Come una volta mi spiegò Geremek, era meglio occuparsi di storia medievale, o comunque di storia il più possibile antica, lontana, in modo da non avere guai con la censura… Non a caso tanti intellettuali come Witold Kula, Karol Modzelewski a altri, avevano scelto quella branca della storia per poter studiare liberamente. Recentemente la Bollati Boringhieri ha chiesto al nipote di Gurevic, morto nel 2006, come fare a fargli avere le royalties, i diritti delle vendite del libro. Quest’uomo non è un dissidente, suo nonno si occupava di Medioevo, non sappiamo nemmeno cosa faccia nella vita. La risposta di questo signore che vive in Russia, una persona comune, è stata: dateli a un’organizzazione per la difesa dell’Ucraina.
Nel mio ultimo viaggio a Varsavia ho incontrato una giovane giornalista russa, appartenente sicuramente alla classe dell’élite, quindi una privilegiata; lei viveva a Mosca e fortunatamente è riuscita ad avere il permesso di andare a Varsavia dove ora fa la corrispondente. È una ragazza di 28 anni e mi raccontava: “Voi non potete nemmeno immaginare cosa significa ritrovarsi senza internet, costretti a ripristinare i telefoni fissi perché i cellulari non funzionano più, con i risparmi trasformati in carta straccia, con tutto il mondo che ti guarda male, con il tuo paese che viene tagliato fuori dal consesso globale... per noi giovani è la fine di tutto”.
Ecco, è come ritrovarsi prigionieri di un incubo in cui una macchina del tempo ti riporta indietro di ottant’anni. Queste cose peseranno.
Stiamo assistendo a un inesorabile allontanamento della Russia dall’Occidente?
Pietro il Grande desiderava che la Russia fosse Europa, tanto che arrivò a spostare la capitale da Mosca a San Pietroburgo; un’impresa utopistica che solo all’epoca dell’Illuminismo poteva essere immaginata; lui voleva stare vicino all’Europa. Ecco, oggi stiamo assistendo a un movimento in senso contrario: le città più importanti della Russia sono Novosibirsk, in mezzo alla Siberia, Vladivostok, in fondo alla Transiberiana…
Alcuni studiosi russi con cui abbiamo fatto un colloquio in streaming, storici legati anche al dissenso, dicevano che questo è forse il processo più importante, al di là degli esiti della guerra. Cioè che comunque la Russia si sposterà dalla parte della Cina. Proprio uno spostamento geopolitico. Con una battuta è stato detto che la gente andrà a San Pietroburgo come oggi si va a Venezia. Andrai all’Hermitage come a vedere una bella città con i canali, però San Pietroburgo non conterà più niente, sarà solo una bella città da visitare; anche Mosca perderà sempre più la sua importanza; tutti i commerci d’affari, ma anche la cultura, tutto si sposterà…
Il rischio è che il grande vincitore di questa partita sia la Cina. Che l’asse si sposti tutto verso Oriente, con la Cina, con l’India, e una Russia europea sempre più marginale, sul confine.
Che poi dobbiamo sempre ricordare che la parola Ucraina significa “al confine”. Il loro destino sta già nel nome. Questa è la marca che impatta come una sorta di muraglia cinese verso l’Occidente. La domanda è se questa marca sia essa stessa parte dell’Occidente, come vorrebbero gli ucraini, oppure se costituisca quel margine oltre al quale c’è l’Occidente, ma del quale non farebbe parte...
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)